Testaroli & Panigacci

Lunigiana, terra "di mezzo" ricca di tradizioni gastronomiche tra cui quella dei celebri testaroli e panigacci: scopriamone storia e differenze

Testaroli & Panigacci

La Lunigiana è una splendida terra che si estende tra Liguria, Toscana e Emilia, ricca di prodotti alimentari antichi, semplici, gustosi, di origine contadina, perciò sostanzialmente definibili “poveri”, ma dall'aspetto e dal gusto decisamente ricchi e da scoprire. 

Testaroli e panigacci, oltre che Prèsidi Slow Food, sono prodotti PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale), i primi in Liguria nel gruppo “Prodotti della Gastronomia”, i secondi in Toscana in quello delle “Paste fresche, prodotti della panetteria, ecc.” (Panigacci di Podenzana); si tratta quindi di prodotti che per definizione legale sono ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni (categoria istituita ai sensi dell’ art. 8, comma 1 del D.lgs n.173 del 1998, regolati da DM n.350 del 08/09/99).  

Se gli elementi per produrre testaroli e panigacci sono i medesimi (farina, acqua, sale), il vero dominatore della scena è lo strumento utilizzato per cuocere i due prodotti: il testo, radice delle parole testarolo e testaroli. Il nome di questo utensile da cucina deriva dallo spagnolo tiesto che vuol dire pentola (infatti in molti dialetti italiani il tegame è chiamato "testo" o “tisto”, proprio per l’influenza della lingua spagnola, vista la dominazione in gran parte dell’Italia dal 1559 al 1713). 

I termini indicati si ricollegano alle parole latine (i Romani dominarono tutta la Penisola Iberica dal 218 a.C. fino alla caduta dell’Impero nel 476 d.C.) “testa”, “testu” e “testum”, con i quali si soleva indicare i recipienti in terracotta per la cottura dei cibi, sia classicamente formati da coperchio e contenitore, sia costituiti da piatti leggermente incavati (dischi) per accogliere il cibo da cuocere nel forno o sulla fiamma vivace (tutti a loro volta da riportare a “testa”, termine che indicava la corazza concava che protegge testuggini e tartarughe). 

Il termine testo indicava originariamente solo il coperchio, poi tutto il tegame (coperchio e contenitore), sia che fosse fatto in metallo che in terracotta. Il testo ancora oggi può essere sia quello fatto da coperchio (detto soprano) e contenitore (detto sottano) in ghisa, sia quello fatto da un semplice disco di terracotta leggermente incavato per alloggiare opportunamente la dose di impasto da cuocere. Il testo è l’attrezzo principale per la preparazione non solo di testaroli e panigacci, ma anche della famosa fainà e di altri prodotti tipici, trattandosi di un attrezzo per la cottura dei cibi in genere.

Attualmente vengono prodotti testi circolari di terracotta per i panigacci, con Ø 15-20 cm e spessore di 6 - 20 mm; quelli per testaroli e altri preparati sono, invece, fatti in ghisa (lega ferrosa costituita principalmente da ferro e carbonio; che letteralmente significa 'ferro colato” e deriva dal tedesco “Gusseisen'): la ghisa presenta una durezza maggiore rispetto all'acciaio, resiste meglio alla corrosione, ed ha una migliore fusibilità. Gli utensili da cucina fatti di ghisa, avendo per loro natura la capacità di accumulare calore e rilasciarlo lentamente, consentono di usare un fornello piccolo, spegnere il fuoco di partenza e completare la cottura a fuoco spento.

Un ulteriore vantaggio della ghisa è permettere la perfetta riuscita della reazione di Maillard. Tornando ai nostri testi, possono avere dimensioni grandi (coperchio o soprano Ø 47 cm, base o sottano Ø interno 40 cm, al netto dei due manici, peso di circa 27kg) o piccole (coperchio o soprano Ø 38 cm, base o sottano Ø interno 30 cm, al netto dei due manici, peso di circa 18 kg ), dello spessore di cm 1.

Ma perché il testo? Semplicemente perché era possibile trasportarlo negli spostamenti (contadini, pellegrini, pastori o chiunque viaggiasse), consentiva di cuocere qualcosa su fuoco improvvisato o nei forni presenti nel luogo dove si giungeva. Nel testo si cuoceva in particolare pane azzimo (si preferiva non aggiungere lievito per non dover attendere la crescita della pasta), preparando in tal modo un prodotto più facile da conservare in quanto povero di acqua, da consumare come pane (vedi panigacci) oppure rinvenuto brevemente in acqua calda come una pasta semifresca (vedi testaroli).

I testaroli (parliamo al plurale come si fa per i ravioli, per i quali quasi mai si usa dire “il raviolo”) secondo gli storici della cucina locale sarebbero stati già noti al tempo dei Romani, data la semplicità estrema di preparazione e cottura (non dimentichiamo che i Romani amavano preparare le lagane!). Mentre leggenda vuole che una patrizia romana di nome Amalia, benefattrice, li avrebbe offerti ai poveri in un banchetto a questi dedicato. Oggi certamente il target di riferimento di questa specialità è molto più ampio e non riguarda più il ceto povero, anche perché questo semplice prodotto artigianale (commercializzato spesso anche precotto e confezionato sottovuoto) costa al chilo molto di più di una pasta secca alimentare prodotta industrialmente! 

Volendo classificare i testaroli (particolarmente apprezzati sono quelli di Pontremoli da circa 40 cm di diametro, Castagnetoli e Fosdinovo del diametro anche di 15 - 20 cm), si può affermare che in apparenza sembra trattarsi di un pane azzimo, cotto nel testo ma non reso croccante e pronto da mangiare, bensì morbido, non mangiabile tal quale, da consumare soltanto dopo averlo ritagliato in piccoli rombi (losanghe) e fatto rinvenire in acqua bollente per pochissimi minuti, per cui si potrebbero identificare anche come una pasta fresca.

Il testarolo quindi non è pane perché non si può mangiare subito dopo la cottura nel testo, non è pasta fresca perché se lo fosse non verrebbe prima cotto nel testo. Si tratta perciò di un ibrido gustosissimo, frutta dell’intelligenza contadina del tempo (e della fame) che fu! 

Preparare i testaroli è apparentemente semplice, perché ci vuole comunque esperienza: mescolando acqua, farina (anticamente si usava quella di farro, grano ancestrale) e sale si ottiene una pastella fluida, da versare nel testo (fatto prima arroventare su fuoco diretto, possibilmente di legna secca di faggio, o in forno elettrico o a legna che sia) cercando di non superare lo spessore di alcuni millimetri, da cuocere per pochi minuti.

Durante la cottura, il testarolo non deve essere rivoltato in quanto il sottano del testo cuoce la base, mentre l’irradiazione del calore da parte del soprano cuoce la superficie. Dopo il raffreddamento, il testarolo (grande disco di pasta cotta con aspetto leggermente spugnoso) viene tagliato a rombi (lato di circa 5 cm), da immergere in acqua salata che bolle, spegnendo il fuoco prima di immergere i testaroli, che vi resteranno al massimo per 1-2 minuti. Opportunamente scolati, i testaroli vengono conditi con pesto alla genovese oppure con salsa di noci. Volendo restare nella tradizione bisognerebbe evitare di condire con salse "rosse" ai pomodoro, visto che quando i testaroli saziavano la fame dei contadini l’America non era stata ancora scoperta. 

I panigacci o panigazzi devono il loro nome al panigo che identifica il panìco, un antico cereale non graminacea, simile al miglio, base dell’alimentazione popolare (così come il farro e le castagne) non sono altro che piccoli pani azzimi rotondi, fatti sempre con acqua, farina e sale, ma cotti in testi piccoli di terracotta o ghisa, impilati uno sull’altro, dopo averli arroventati su fuoco diretto o in forno, riempiti di impasto fluido dello spessore di pochi millimeri: praticamente, ogni panigaccio viene cotto dalla base inferiore del testo superiore e dalla base superiore del teso che lo contiene. Dopo cottura di pochi minuti, i panigacci ancora caldi si pongono in cestini di vimini, si presentano di colore biancastro, con profumo fragrante, sapore sapido, consistenza croccante, consumandoli caldi per apprezzarli al meglio. 

Al contrario del testarolo, il panigaccio non viene ridotto in piccoli rombi da porre in acqua bollente, ma usato così com’è, farcendolo con formaggi, salumi, semplice olio evo misto a formaggio grattugiato, anche se alcuni preferiscono la versione condita con cioccolata da spalmare, confetture o altre varianti di proprio gusto.

Note bibliografiche
Schede tecniche dei PAT
E. Monzani, Liguria in cucina, Ed. SIME BOOKS

Photo via Stockfood

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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