Mercoledì 5 dicembre non perdere questa gustosa ricetta di chef Fabio Campoli a La Prova del Cuoco!
Parliamo del più grande classico italiano, ovvero il pesto di basilico alla genovese: ripercorriamone le origini attraverso la prima ricetta
Basilico: un nome oggi a tutti noto non solo per la sua presenza nel famoso pesto genovese, ma anche perché capace di migliorare con il suo profumo tante pietanze: una mozzarella, una frisella, un’insalata di pomodori e tonno, una splendida salsa di pomodoro per pasta e tanto altro ancora. Sull’argomento pesto ho avuto di recente il piacere di leggere un piccolo libro di Paolo Lingua, edito da Il Melangolo, interessante e intrigante per le tante notiziole che sforna nelle sue pagine, delle quali intendo parlarvi, con alcune mie osservazioni.
A Genova il basilico (Ocymum basilicum) era in passato visto soltanto come pianta officinale, cioè da farmaco, da usare per la cura di alcuni malanni e incidenti corporali; correlata simbolicamente allo Scorpione in quanto leggenda voleva che gli scorpioni si annidassero nei pressi delle piantine di basilico, ma altra versione afferma che l’estratto di basilico sarebbe un ottimo rimedio conto la puntura dello scorpione.
Anche Columella (4-70 d.C., scrittore romano di agricoltura la cui l’opera più famosa è il De re rustica, cioè “Dell’agricoltura”) si interessò del basilico, consigliando di seminarlo al massimo fino a metà marzo (in modo da sfuggire alle gelate tardive primaverili) e di raccoglierlo al massimo fino alla seconda decade del mese di giugno, in quanto è vero che dopo tale data il basilico sprigiona un profumo troppo forte, quasi aggressivo (i vecchi agricoltori dicevano che sapeva di menta); in tale stato era usato solo in insalate da “profumare”, specialmente se con pomodoro.
Quindi in estate il pesto non si preparava perché sapeva troppo di menta e meno di basilico. Tanti gli antichi studiosi di botanica, agricoltura, medicina e cucina che si sono interessati del basilico: Plinio (romano, I sec. d.C.), Teofrasto (greco, 371 – 287 a.C.), Avicenna (persiano, 980-1037 d.C.), Galeno (greco, 129-201 d.C.) e cuochi come Apicio (I sec. a.C. – I sec. d.C.), in particolare per il suo uso officinale, tanto che nel medioevo se ne faceva uso per combattere flatulenze, dolori mestruali, i dolori intestinali, le aerofagie, gli avvelenamenti blandi, favorire allattamento materno.
Anche se affermatosi nel tempo in Liguria, il basilico per tanto tempo è stato simbolo dell’Italia meridionale, in particolare in Sicilia, nella cui cucina se ne faceva larghissimo uso, tanto che ogni famiglia aveva il suo vaso (in dialetto “grasta”, spesso con aspetto antropomorfo di viso di uomo o donna, legato a leggende tipiche di ciascun posto, di norma correlate a vicende amorose), così come ogni contadino nel suo orto, piccolo o grande che fosse.
Della grasta di basilico si racconta anche che in Sicilia fosse posta all’esterno delle cosiddette case chiuse (o case dell’amore), degradando così l’alto significato di pianta reale! In letteratura il basilico è stato utilizzato anche da Boccaccio nel suo Decamerone e da Tommasi di Lampedusa nel suo famosissimo “Il Gattopardo”. Dalla Sicilia alla Liguria il passo non è breve e, in effetti, l’unica ipotesi valida su questo scambio agricolo regionale resta quella del commercio di grano duro (non dimentichiamo l’attività prevalente dei genovesi, cioè il commercio innanzitutto) e pasta tra le due regioni (dagli arabi ai siciliani e da questi ai liguri: si pensi alle trenette [triya in arabo sta per pasta secca] e ai fidelini [o capelli d’angelo, dall’arabo fidewais]), con al seguito il basilico, portato al nord inizialmente come pianta ornamentale e officinale, per poi trasformarla, come in Sicilia, in un insostituibile alleato in cucina, anche se inizialmente per decorare piatti o in forma di battuto, tritato, foglie intere, ma mai come pesto, salsa che inizia la sua scalata nella cucina di Genova soltanto a metà del XIX secolo (quindi intorno al 1850).
Sino ad allora di questa erba aromatica non si fa mai cenno nella cucina genovese, e ligure in generale, al contrario del prezzemolo che trova sempre il suo spazio nelle preparazioni, sia nobili che popolari. Il pesto compare in tale periodo sotto il nome di “battuto genovese”, preparato però come quello che poi sarebbe stato chiamato pesto, quindi con foglie di basilico fresche, sale, pecorino (sardo o meno che fosse, stagionato o un po’ fresco poco importa sapere), parmigiano e in alcune aree anche noci. Questioni politiche portavano a usare il pecorino sardo, dato che la Sardegna poteva considerarsi una colonia genovese, i cui prodotti agroalimentari erano molto apprezzati in tutta la Liguria e specialmente a Genova, ma nello stesso tempo alcuni proponevano l’uso insieme al parmigiano del formaggio olandese dalla crosta rossa, data la presenza in città di una numerosa colonia di gente delle Fiandre, area con grandi scambi commerciali da e per Genova.
Il tempo ha poi lasciato che prevalesse il pecorino sardo, non foss’altro che per campanilismo e indubbia superiorità organolettica, oltre a insuperabile idoneità per il pesto di basilico. Senza dubbio il pesto non nasce subito come salsa ma sicuramente da prove fatte per aromatizzare piatti liguri; alcuni pensano anche al miglioramento di salse all’aglio, molto piccanti come la salsa aioli (che altro non è se non una super agliata) o la salsa marò (fatta con fave fresche, olio, formaggio pestati insieme), entrambe utili per condire bolliti e arrosti. Ipotesi però molto affermata è quella che vede il pesto come una modifica della classica salsa di noci ligure, con la quale si condivano le lasagne, utilizzando anche la famosa cagliata acida che è la prescinseua (per la sua acidità e densità molto simile a uno yogurt).
L’aggiunta del basilico pestato avrebbe determinato un ingentilimento dell’acidità di quest’ultima, oltre che un giusto contrasto con il tenue profumo e sapore delle noci. La ricetta originaria del pesto alla genovese, comparsa come dicevano verso la metà del XIX secolo nella prima edizione de La Cuciniera Genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese di Giovanni Battista Ratto, come menziona anche sito del Museo Biblioteca della Cucina Garum (ritrovandone bensì prime tracce sin dagli scritti del Messisbugo) fornendo anche la ricetta di quello che nel libro viene originariamente indicato come Battuto o savore all’aglio (Pesto):
“Prendete tre o quattro spicchi d’aglio, basilico (baxaico), e, in mancanza di questo, maggiorana (paersa) e prezzemolo (porsemmo), formaggio d’Olanda e parmigiano grattugiati e mescolati insieme, e pestate il tutto in mortaio finchè sia ridotto in pasta. Scioglietelo quindi con olio fino, in abbondanza. Con questo battuto si condiscono le lasagne, i tagliolini e i gnocchi (troffie) unendovi anche un po’ d’acqua calda senza sale per renderlo alquanto più liquido”.
Pesto maducou era quello della più autentica, radicata e radicale tradizione genovese, ricco di aglio e pecorino, contro versioni più “moderne” e “digeribili” che gradiscono meno aglio, una miscela di parmigiano e pecorino o con la prescinseua, molto meno aggressiva sia del pecorino che del mix citato di formaggi. Le dosi di aglio, di pecorino e di parmigiano non sono fissate se non in linea orientativa, perché il pesto è una salsa molto personale quanto ad aglio, pecorino e parmigiano (si passa dal pesto aggressivo cosiddetto “maleducato” a quello più delicato, con tante sfumature intermedie).
Successivamente è stata introdotta (e molti gourmet hanno storto il naso) l’aggiunta di verdure come fagiolini, zucchine, patate, con un risultato che senza dubbio si allontana dall’origine, ma fornisce una pietanza più gradita e facile da digerire, oltre che più completa quanto a nutrienti. Successive varianti sono state l’aggiunta del burro durante la formazione della salsa al fine di mantecarla (ma sull’argomento i no prevalgono sui si, dato che anche il miglior burro deteriora la fantastica armonia tra olio evo e gli altri elementi; mai poi noce di burro sulla pasta già condita col pesto, così come mai aggiungere formaggio alla fine sulla pasta nel piatto), e l’uso dei pinoli, i quali per i gourmet dovrebbero essere usati (se di ottima qualità come quelli pisani) solo se col pesto si condirà pasta e non se la salsa sarà aggiunta ad altre salse o a miniestroni.
La pasta ideale da condire con pesto è classicamente la trofia e la trenetta, ma anche qui la democrazia culinaria primeggia con l’uso del formato che più aggrada, dato che l’elemento fondamentale è il pesto e secondariamente la pasta usata (quindi spazio a gnocchi, linguine, spaghetti, paste corte varie, finanche alle lasagne al pesto).
Sul vino da abbinare al pesto: molti esperti sostengono che essendo il pesto una salsa troppo ricca di carattere (aglio, basilico, pecorino) sarebbe meglio bere dell’acqua, abbinando il vino alle pietanze successive. Ma io non concordo perché l’abbinamento non è facile ma nemmeno impossibile, anche perché l’acqua impoverisce il pasto a cui si accompagna, in tutti i sensi organoletticamente e psicologicamente. Sull’abbinamento vino e pesto leggi il nostro articolo precedentemente pubblicato: https://www.prodigus.it/articoli/sinfonie-di-sapori/il-vino-giusto-per-il-pesto
Note bibliografiche
- P. Lingua, Il mistero del pesto, Ed. Il Melangolo
- Rossi – Fazzari, Pesto. Tradizione e futuro, Ed. SAGEP
- Di Masi – Ferrè – Maurizi, Facciamolo pesto, Tommasi Editore
- AA.VV., Tecnica dell’abbinamento cibo – vino, AIS
- Luigi Veronelli, Bere giusto, Ed. BUR
Photo via Stockfood
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