Fiscoli, panari e cannizzi

Intrecci vegetali frutto di un'antica arte rurale che ancora oggi sopravvive in Puglia (e non solo) e dà vita a manufatti senza tempo

Fiscoli, panari e cannizzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Esempi di fiscoli e panari, immagini tratte dai libri "La Terra dell'ulivo - Guida enogastronomica della puglia" (Mario Gadda Editore) e "La casa in campagna" (Edizioni Agricole)

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Fin da quando ha iniziato a raccogliere e manipolare i prodotti della terra, l'uomo ha sentito il bisogno di fabbricare contenitori adeguati alle sue attività. L’arte di intrecciare giunchi o fibre vegetali, come dimostrano reperti egizi risalenti a 10.000-20.000 anni, sembra abbia preceduto quella della ceramica e della tessitura. I primi cestai a volte rivestivano i cesti con della creta per renderli impermeabili, e da questo uso è nata l’arte della ceramica.

La tradizionale arte dell’intreccio, per sua natura ecologica ed ecocompatibile, sopravvive tuttora in ogni parte del mondo: in Italia ci sono le nasse in giunco per catturare aragoste e granchi , le gerle di vimini o salice per il fieno e la legna, piccoli canestri per il formaggio e ceste piccole o grandi per il pesce o la raccolta di frutta e verdura, olive o ancora lumache. Oggigiorno i contenitori in plastica prodotti industrialmente hanno purtroppo preso il sopravvento quasi ovunque e sono pochi gli artigiani che si dedicano alla cesteria. 

Una delle arti ormai quasi scomparse è quella di intrecciare i fiscoli. Se ci rechiamo in Salento scopriamo che nei frantoi ipogei scarsamente illuminati anticamente si praticava manualmente l’intreccio del fiscolo , che i romani chiamavano fiscis o fiscina. Il termine deriva dal latino “fiscus” che vuol dire cesto o borsa,  ma il fiscolo non è affatto un cesto: è un disco del diametro di circa 60 cm ottenuto intrecciando cordoncini di fibre di cocco, canapa o giunco, usati anticamente come filtri nella spremitura a freddo delle olive.

L’estrazione dell’olio si può effettuare in diversi modi; essa si compone di due fasi principali : lo schiacciamento delle olive, che un tempo avveniva attraverso le macine di pietra ,e la separazione del mosto d’olio dalla sansa che è la parte solida fatta da pezzi di noccioli, bucce e frammenti di polpa. Questa seconda fase è quella in cui anticamente intervenivano i fiscoli . Con questi dischi si otteneva infatti una pila alta che era posta all’interno di un cilindro forato al centro (chiamato foratina). Ogni elemento della pila era formato da tre fiscoli sovrapposti interponendo tra l’uno e l’altro uno strato di 3 cm di pasta d’olive ottenuta dallo schiacciamento; un quarto fiscolo era sormontato da un disco di acciaio necessario a distribuire la pressione sulla pasta di olive in modo uniforme.

In media occorrevano 60 fiscoli alternati ad altrettanti strati di pasta di olive, 20 dischi di acciaio e 20 fiscoli senza la pasta per formare la pila nella foratina. La pressione di circa 400 atmosfere esercitata da una pressa sulla pasta di olive della pila faceva uscire l'olio (ancora misto ad acqua di vegetazione) dalla foratina. La tecnica di estrazione dell’olio oggi è meccanizzata, i fiscoli sono perciò pressoché entrati in disuso e sono rari  i frantoi che li utilizzano ancora, anche perché con l’uso le fibre dei vecchi fiscoli trattenevano impurità e muffe e l’olio assumeva un sapore piuttosto sgradevole. Oggi i fiscoli in fibra vegetale si producono ancora, ad esempio, in alcune botteghe artigianali del Salento, dove si possono acquistare per diventare elementi d'arredo rustico che racchiudono la memoria di un'arte antica. 

Il canestraio o, come si dice in Salento “u panararu”, era il contadino che durante le pause dal lavoro nei campi intrecciava cesti (i “panari) all’ombra di un albero o della propria casa; anche le donne si cimentavano in questa attività adoperando ramoscelli più leggeri. I panari si ottengono intrecciando i vinchi (un tipo di pianta rampicante), i polloni degli alberi di olivo o olivastro che crescono in estate sui tronchi, oppure le canne sezionate per la lunghezza, o ancora i ramoscelli di lentisco o mirto .Realizzare un cesto non è tanto semplice: una volta procurate le parti occorrenti delle piante si procede alla bollitura, all’essiccazione,alla levigatura, all'eventuale colorazione  naturale, al taglio e infine alla conservazione. Oltre ai panari e ai panareddi più piccoli che hanno un solo manico, si confezionano in Salento anche le “còfine” o “còfane”, ceste più grandi e capienti con due manici usate per il trasporto; con i ramoscelli più sottili si fabbricano inoltre anche fuscelle per contenere la ricotta o formare altri formaggi..

Non meno importanti dei panari sono i cannizzi, detti anche “ cannizzole”. Il cannizzo è formato dai fusti delle canne accostati e legati con fil di ferro: sino ad oggi ha anche assunto la funzione di tettoia d’ombra   di sottotetto o di muro divisorio nelle case di campagna . Al sole i cannizzi, posati su tavole di legno per tenerli staccati dal terreno servono per l’essiccazione al sole dei prodotti della terra, in particolare in Puglia di pomodori e di fichi.

Scritto da Elena Stante

Laureata in Matematica nel 1981 presso l’Università degli Studi di Bari, dal 1987 al 2023 ha insegnato Matematica e Fisica presso il Liceo Ginnasio Aristosseno di Taranto .Ha partecipato ai progetti ESPB, LabTec, IMoFi con il CIRD di Udine e a vari concorsi nazionali ed ha collaborato con la nomina di Vice Direttore per la regione Puglia alla rivista online Euclide, giornale di matematica per i giovani. Le piace correlare la scienza al cibo, nonché indagare su storie e leggende, e con Prodigus inizia il suo percorso di redazione di contenuti golosi per gli utenti del web.

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