Il vermut italiano

Aperitivo e molto di più: scopriamo storia e impieghi del vino liquoroso di cui esistono tante versioni, a partire dall’IGP torinese

Il vermut italiano

Liquore (o meglio vino liquoroso, secondo la legge) molto apprezzato in Casa Savoia (aperitivo ufficiale della corte di Vittorio Amedeo III, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II) e da Cavour, oltre che da divi del cinema quali Bette Davis  e F.C. Fields, da scrittori del calibro di Hemingway (tutti accomunati dalla passione anglosassone per i cocktail, di cui il vermouth è spesso componente fondamentale) e dello scrittore Carlo Levi (autore di “Cristo si è fermato ad Eboli”) che negli anni ’50 del secolo scorso prese parte alla pubblicità; bevuto dall’interprete di una fiction televisiva di alcuni anni fa (una professoressa, che amava berlo liscio nelle soste al bar), il vermouth è il più classico dei componenti dei cocktail, tanto da non mancare mai sia nelle bottiglierie che nei supermercati, GDO, bar e negozietti vari, proprio perché bevanda alcolica aromatica, dolce, molto diffusa e gradita, sia per l’aperitivo che per il dopocena

Dopo un primo periodo di fama nazionale, il vermouth è stato accantonato dopo gli anni 80 del secolo scorso (periodo di diffusione di bevande gassate e nuove, oltre che di superalcolici), per tornare poi alla ribalta grazie non solo alla sua caratteristica olfattiva inconfondibile, ma anche alla produzione di tante tipologie, molto più numerose del passato e alla riscoperta di un simbolo italiano nel mondo. Si tratta di un prodotto secondo alcuni antico, nel senso che un vino aromatizzato simile (utile per il piacere e per alcune doti medicamentose) sarebbe stato ideato dal medico greco Ippocrate di Cos (vino, miele, assenzio, fiori del dittamo di creta) utile per la digestione e alcuni malanni. 

Le guerre e gli scambi commerciali fecero sì che anche i Romani producessero il loro Vinum absinthiatum, con uso anche di timo, rosmarino e il molto profumato levistico (alias sedano di monte), mirtillo. I Veneziani alcuni secoli dopo pensarono di introdurre nella ricetta le spezie, per loro facili da ottenere grazie ai fiorenti commerci con i paesi africani, asiatici e del Nuovo Mondo. Col passare dei decenni fu Torino a imporsi nel 1600 su Venezia e Firenze per la produzione di vermouth, più che altro a livello domestico, tanto che ogni famiglia aveva la propria ricetta per il vermouth, con alcune spezie ed erbe segrete. Secondo gli storici del vermouth torinese, la ricetta dell’attuale liquore risalirebbe al 1786 e sarebbe opera di Antonio Benedetto Carpano a Torino (all’epoca semplice garzone in una liquoreria sotto i portici di piazza Castello, di proprietà di un certo Merendazzo), il quale avrebbe per la prima volta intuito l’utilità del vino Moscato quale base per il vermouth. 

La prima normativa riguardante il vermouth risale al Regio Decreto n. 1696 del 1933, che fissò gradazione alcolica minima, tenore zuccherino, vini base, ecc.; per l’assenzio quale aroma principale e obbligatorio si provvide con la legge n. 108 del 16 marzo 1958. Nel 1991 la UE emanò il Reg. 1601, per i vini aromatizzati e la loro tutela e riconoscimento quale DOC/IGT. Di vermouth in Italia se ne producono tanti, ma tra i più rinomati e famosi, anche nel mondo, spicca quello di Torino, la cui fama e qualità sono divenute tali da fargli meritare il riconoscimento sia di PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale, nel 2014) da parte della Regione Piemonte e del MIPAAF, sia di prodotto comunitario a IGP (Indicazione Geografica Protetta), con DM MIPAAF 1826 del 22/3/2017, dopo un iter burocratico durato circa venti anni. 

Come si legge nel disciplinare di produzione di questo vermouth “La richiesta di riconoscimento trova la sua giustificazione nella reputazione e nell'origine del prodotto. Il Vermut di Torino, infatti, è conosciuto nel mondo per la tradizione e la storicità della produzione che si avvia in Piemonte a partire dalla fine del XVIII secolo.  Nonostante il nome Vermut possa trarre in inganno, si tratta di prodotto tradizionale italiano sia per invenzione che   per   produzione.   Le   varianti   della denominazione più frequenti sono Vermouth e Vermut; si cita anche l'uso della terminologia Vermuth, mentre non risulta utilizzato il termine Vermout. La sua origine e' piemontese, e precisamente torinese”.

Ma cosa possiamo dire di questo splendido prodotto italiano? Diciamo subito che la parola vermouth in tedesco significa “assenzio” (corrispondente botanicamente alle specie Artemisia absintium, A. pontica, con tipico sapore amarognolo), erba sempre presente in qualunque tipologia di vermouth, in particolare in quello di Torino, al quale farò riferimento in questo breve scritto, trattandosi del vermouth storicamente più importante e al quale rapportarsi. Il processo di produzione del vermouth si può così riassumere: infusione delle erbe e spezie in soluzione idroalcolica (ma sono consentiti anche altri metodi di estrazione delle sostanze aromatiche) per 15/20 giorni e successiva filtrazione, miscelazione degli estratti vegetali con vino e zucchero, maturazione e affinamento in acciaio per alcuni mesi, filtrazione finale, imbottigliamento.

Per quanto attiene la componente aromatica  vegetale, le specie presenti oltre all’artemisia, sono davvero tante, con un certo grado di segretezza di ogni produttore: achillea, camomilla, issopo, santoreggia, maggiorana, salvia, sclarea, sambuco, timo, origano tra le erbe aromatiche (a cui possono aggiungersi anche scorze di arancio amaro, lichene polmonario e altre secondo le ricette segrete di ogni produttore), mentre come spezie si ritrovano miscele di cannella, cardamomo, chiodi di garofano, coriandolo, noce moscata, vaniglia, zafferano, rabarbaro e altre. Obbligatoria è la presenza di assenzio (sia come A. absintium che pontica) per almeno 0,5 g di pianta essiccata (sommità fiorite) per litro di prodotto finito.

Nel disciplinare di produzione del Vermouth di Torino si specifica che i tipi commerciali sono distinti sia in base al contenuto di zucchero [extra secco o extra dry (meno di 30 g/l), secco o dry (meno di 50 g/l), dolce (uguale o superiore a 130g/l)], sia in base al colore (bianco - fino al giallo paglierino e giallo ambrato -, rosso – tutti tipi e tonalità di questo colore). Le caratteristiche gustolfattive possono riassumersi in: odore intenso e complesso, aromatico, balsamico, armonico, talvolta floreale o speziato; sapore morbido, con equilibrio tra le diverse componenti amarognole (derivate da erbe e spezie, con prevalenza però dell’assenzio) e quella dolce dello zucchero e dell’eventuale caramello; grado alcolico non inferiore a 16 e non superiore a 22; totale assenza di effervescenza. 

Ma quali sono i vini usati per produrre il vermouth Torino IGP? In base al disciplinare si tratta di vini bianchi piemontesi, in primis il Moscato di Canelli, oltre al vitigno Cortese, quelli dell’area alessandrina del Gavi, seguiti dai vini bianchi di Puglia (specialmente Verdeca e Bianco di Alessano prodotti nel territorio di Martina Franca, nell’area delle Murge Tarantine), Sicilia e Sardegna. La miscela di vini bianchi consente di unire l’acidità (freschezza) dei vini nordici con la maggiore alcolicità di quelli meridionali. Per l’edulcorazione del vermouth di Torino si possono usare il classico zucchero raffinato (oltre a quello di fabbrica, a quello bianco, a quello liquido e altri tipi), lo zucchero caramellato (unico colorante ammesso per questo vermouth), il mosto d’uva nelle sue diverse versioni (tal quale, concentrato, ecc.), il miele

Il vermut è utilizzato soprattutto come aperitivo e classico dopocena liscio; il suo impiego è caratteristico di tanti cocktail come l’Americano (insieme al Campari Bitter), il Martini Cocktail Dry (insieme a Bosford Gin), il Martini Cocktail Medium o Perfect (Vermouth Bianco Dry, Vermouth Rosso con Bosford Gin), il famoso Negroni (con Campari e Gin), il Negroni sbagliato, (con Campari e Pinot o Chardonnay), il Martini sporco e tanti altri. Come aperitivo va bevuto fresco (a 12 gradi), anche se molti amatori del liquore lo preferiscono liscio, mentre per altri è gradita l’aggiunta di cubetti di ghiaccio nel bicchiere, insieme a una fetta d’arancia e spruzzata di scorza di limone sul bordo del bicchiere. Personalmente ritengo che il servizio freddo si addica molto al tipo dolce, in modo da evitare una dolcezza stucchevole; la temperatura dovrebbe innalzarsi fino a quella ambiente passando ai tipi meno zuccherati. Meglio evitare il ghiaccio perché il buon vermouth viene diluito, perdendo molto delle sue caratteristiche gustolfattive. Come aperitivo si abbina magnificamente a snack da bar, sottaceti, olive, frutta secca in genere.

In cucina il vermouth in genere viene usato anche per cucinare (più comunemente “sfumare”) carni, pesce, primi piatti e dolci: esempio sono le scaloppine/spezzatino di vitello al vermouth, il risotto al ragù e vermouth, filetti di sogliola al vermouth, le pesche al vermouth con panna, e tanti dolci in cui la bagna è costituita del vermouth tal quale o diluito, bianco, rosato o rosso in abbinamento agli altri colori della preparazione dolce. Diciamo però che il vermouth deve essere usato in cucina in funzione del suo carico zuccherino, in rapporto alle caratteristiche gustative e olfattive della a pietanza.

La bottiglia di vermouth una volta aperta deve essere conservata in frigorifero per evitare le ossidazioni che alterano colore, sapore e profumo; in ogni caso sarebbe bene non superare 1-3 mesi di tempo per consumare l’intera bottiglia, in funzione del grado alcolico (poco alcol meno tempo). Molte case produttrici famose per il vermouth, producono anche un liquore (diciamo meglio: un drink) simile al vermouth, ma non classificabile tale (infatti la parola non compare sull’etichetta) in quanto con titolo alcolometrico inferiore al minimo previsto dalla legge per il vermouth (min. 15,5° nei tipi diversi dal Vermouth di Torino).

In Liguria, ad esempio, il Vino Aperitivo Corochinato è un vino bianco aromatizzato tipo vermut originario di Genova e prodotto a Prà: il nome indica le origini nella località di Coronata (coro-chinato), dalle cui colline proveniva il vino bianco che costituiva l’ingrediente principale della ricetta del 1886. Conosciuto nella regione anche sotto il nome di “Asinello” (derivato dall’immagine che compare sull’etichetta della bottiglia) è diffuso ancora oggi come aperitivo, da sorseggiare liscio aromatizzato da una scorzetta di limone.


Note bibliografiche

  • I grandi libri del vino & co., Ed. Gribaudo
  • Mensile Il Mio Vino, Ed. Il Mio Castello
  • AA.VV., Manuale del sommelier, Ed. AIS


 

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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