Un prodotto molto conosciuto a livello locale, che in attesa del riconoscimento DOP inizia a far parlare di sè
Nel corso dei secoli ha assunto nomi (e contenuti) differenti: ma la sua essenza originale merita di essere raccontata
E' un vero simbolo delle festività pasquali, ma nella sua terra d'origine si prepara per tutto l'anno. Molti di noi sono abituati a prepararla con ricotta, spinaci, uova sode e un'involucro di pasta croccante variabile a seconda dei gusti e dei propri costumi. Ma in realtà, la torta pasqualina ha una bellissima storia da raccontare: dalla differenza con la torta "cappuccina", alla prescinseua e il preboggion... scopriamo insieme proprio tutto su di lei!
Le torte salate a base di verdure sono un piatto irrinunciabile della tradizione italiana: pensate all’erbazzone reggiano, alla tiella con scarola di Gaeta, alle focacce farcite con cipolle stufate e olive della tradizione pugliese, ai calzoni ripieni di friarielli (spesso accompagnati dalla salsiccia) della gastronomia campana. Ma se c’è una preparazione tra queste che è diventata fra le più amate di tutta Italia, preparata nella sua terra d’origine per quasi tutto l’anno e nelle altre regioni soprattutto in tempo di Pasqua, è quella che prende appunto il nome di torta pasqualina.
L’amore viscerale per questa delizia della cultura gastronomica ligure non sfuggì neanche ai poeti. Martin Piaggio, uno dei massimi esponenti della poesia genovese ottocentesca, le dedicò persino un sonetto:
“Beneita mille votte, e beneixïa
e benedetta quella magnettinn-a,
chi sa fa unn-a tortetta pasqualinn-a,
e ve a presenta cä, e brustolia;
Beneito sæ quell’êuggio chi l’ammïa,
e quell’odô ch’a manda da vixinn-a,
l’erbetta, o cuccon fresco de pollinn-a
e quella prescinsêua chi scappa via;
Beneita seggie a meìzoa cö cannello,
o siäso, e a fænn-a chi se lascia stâ,
e l’êujo che ven zù comme un spiscioello;
Beneito seggie o forno cö fornä;
O testo, o tondo, a ciùmma cö cottello,
e quella bocca chi ne pêu mangiâ.”
“Benedetta e mille volte benedetta
e benedetta sia la manina,
che sa fare una torta pasqualina,
e ve la presenta calda e croccante;
Benedetto sia l’occhio che l’ammira,
e quell’odore che emana da vicino,
l’erbetta, l’uovo fresco di gallina
E quella prescinseua che sfugge via;
Benedetta sia la madia col mattarello,
Il setaccio, e la farina che si lascia riposare,
e l’olio che vien giù zampillando;
Benedetto sia il forno col fornaio;
il testo, il piatto e la punta del coltello,
e quella bocca che ne può mangiare.”
Basta la lettura di queste poche righe per suscitare la curiosità di conoscere la vera essenza di questa ricetta. Perché, in verità, quella che chiameremmo “versione nazionale” della torta pasqualina prevede spesso l’impiego di paste brisée o sfoglia, spinaci, ricotta e uova. Ingredienti che nel tempo si sono trasformati e adattati grazie ad una maggiore reperibilità, soprattutto per quanto riguarda le verdure e i latticini impiegati. Ma in realtà la vera natura della torta pasqualina è particolare, curiosa, se vogliamo anche più complessa… e siamo qui proprio per scoprirne il perché.
Premessa imprescindibile è che la torta pasqualina ha radici antiche: ne fornisce la ricetta già Bartolomeo Scappi (cuoco segreto di papa Pio V e fra i massimi esponenti della gastronomia rinascimentale) nella sua Opera datata 1570, chiamandola Gattafura alla Genovese, riportandone sia una versione farcita con agretti e bietole, sia una con cipolle, formaggio e pepe. L’origine del termine gattafura è ancora incerto: al momento, l’unica fonte nota – benché incerta – si rinviene in quanto scritto intorno alla metà del ‘500 da Ortensio Lando: “a Genova si fanno certe torte dette gattafure perché le gatte volentieri le furano e vaghe ne sono, ma chi è sì svogliato che non le furasse volentieri? A me piacquero più che all’orso il mele”.
Le gattafure erano ai tempi presenti sia sulle tavole nobiliari – come dimostrano appunto le citazioni dello Scappi – che tra i cibi più popolari nelle bettole genovesi, dove regnavano sovrane insieme a migliacci e castagnacci per allietare i palati di avventori locali e forestieri. Con il passare dei secoli, queste torte salate iniziano anche a cambiare contenuto, fuoriuscendo dal “limite” delle verdure a foglia verde ben prima dell’avvento dei tempi moderni. Già un libro di cucina pubblicato ad opera di una famiglia nobile genovese nel 1765 parla di gattafure dai ripieni diversi, come riso e uova o prescinseua abbinata a carciofi, cipolle o funghi.
Il rinnovamento nel nome e una nuova codifica della ricetta risalgono invece alla seconda metà dell’800, quando Giovanni Ratto ed Emanuele Rossi, autori di due libri a tema “La cuciniera genovese” (1863-65), non solo citano per la prima volta la torta pasqualina, ma tengono anche a definirla e distinguerla dalla torta cappuccina. Gli ingredienti sono i medesimi, ciò che cambia – ma che gli autori ritengono giustamente sostanziale, da veri buongustai – è la “gestione” del ripieno. Nella pasqualina, infatti, è d’obbligo che lo strato di verdure e quello di prescinseua siano disposti uno sopra l’altro, ben distinti fra loro; nella cappuccina, invece, i due ingredienti vengono mescolati insieme a formare un ripieno omogeneo.
Le verdure
La tradizione ligure odierna predilige prevalentemente l’utilizzo di bietole. Naturalmente, è consigliata la scelta di quelle giovani, dalle foglie più piccole e tenere e dalle coste più sottili, che la tradizione vuole vengano eliminate del tutto nella pulizia. Solo le foglie ben lavate e asciugate andranno infatti poi tagliate a listarelle, per entrare a far parte del ripieno rigorosamente allo stato crudo: non a caso, tante ricette locali prevedono che, prima di essere posizionate nella tortiera rivestita con l’impasto, le biete tagliate vengano lavorate 1-2 cucchiai di farina, sale, pepe e parmigiano. E qui la farina ha di certo il ruolo di aiutare a trattenere l’acqua rilasciata dalle verdure in cottura all’interno dell’involucro croccante.
Un tempo, al posto delle bietole si usava il preboggion (non a caso, nel sonetto del Piaggio si parla di “erbetta”), termine ligure per indicare l’insieme variabile di erbe spontanee commestibili che venivano raccolte nei campi già dalla fine dell’inverno. In questo caso, però, le foglie venivano sbollentate – il termine preboggi ha proprio il significato di sbollentare in acqua bollente – per poi essere consumate all’interno di minestre, condite come un’insalata o ancora utilizzate come ripieno di pasqualine e cappuccine.
Il formaggio
Ebbene sì, lo avrete già compreso da quanto letto fin ora: attenendosi alla tradizione ligure, non si tratta di ricotta, bensì di prescinseua, anche conosciuta con l’appellativo di quagliata (ovvero “cagliata”). La radice del nome è presù, che in genovese indica proprio il caglio - estratto dall'abomaso dei vitelli da latte, fondamentale per far coagulare il latte e trasformarlo in formaggio. La prescinseua è un formaggio fresco, dalla consistenza simile a quella della ricotta ma che ricorda anche il sapore dello yogurt, dato da un inconfondibile retrogusto acidulo. Infatti, dopo la cagliatura viene lasciata riposare a temperatura ambiente finché non inizia ad acidificare naturalmente.
Questo ingrediente, insieme al preboggion, entra classicamente non solo nel ripieno della torta pasqualina, ma anche dei pansoti, tradizionale pasta ripiena di Genova e dintorni, da servire rigorosamente con salsa di noci. Un altro piatto senza carni, dunque, come la torta pasqualina, perfetta per la Quaresima e i tempi “di magro”.
Le uova
Se ancora oggi in Liguria è popolare il detto “Pasqua de resurrezion, se mangia l’euvo pe devozion” (Pasqua di resurrezione, si mangia l’uovo per devozione), non tutti sono a conoscenza del fatto che, in alcuni periodi storici, le gattafure pasquali probabilmente non prevedevano l’impiego di uova. Questo perché in diversi momenti della storia la Chiesa proibì il consumo di uova durante la Quaresima, considerandole allo stesso livello di carne e latticini (dunque vietando qualsiasi ingrediente di origine animale, fuorché il pesce).
Un’altra curiosità in merito alle uova? Le ricette per torte salate che reperiamo sui libri più recenti e sul web in questo nuovo millennio, prevedono spesso che le uova vengano precotte per bollitura, ovvero rese sode e poi sbucciate per essere inserite all’interno di sformati e torte salate. Nelle ricette ottocentesche di Ratto e Rossi, il consiglio è ben altro: dopo aver inserito gli strati di verdure e di prescinseua nella torta pasqualina, si praticano delle fossette nel formaggio all’interno delle quali si rompono le uova crude, ben accomodate e distanziate fra di loro, in modo da cuocere direttamente in forno insieme agli altri ingredienti della preparazione.
La magia è nell’impasto
Per concludere, non ci resta che parlare dell’impasto che, prima morbido da lavorare e poi croccantissimo all’uscita dal forno, avvolge e protegge questi semplici quanto deliziosi ingredienti. Si potrebbe pensare all’utilizzo delle paste brisé o sfoglia per un’eredità della vicina nazione francese (ricordiamo che la cucina ligure ne è stata inevitabilmente influenzata; anche il nome del celebre pesto pare derivi dal pistou provenzale, ndr). E invece no. Perché semplicemente, come in Emilia Romagna – dove regna sovrano da secoli sua maestà il maiale - si impastano le piadine e si frigge con lo strutto, in Liguria il frutto primario della terra è sempre stato l’olio d’oliva. Dunque, l’impasto originale non prevede altro che farina, acqua e olio.
Com’è possibile dunque ottenere quel risultato così dorato, croccante e sfogliato? Giovanni Ratto nella sua ricetta ottocentesca racconta che il liscio impasto ottenuto dovrà essere suddiviso in 27 parti uguali, le quali andranno assottigliate finemente (“della sottigliezza quasi di un velo”) al mattarello, per poi essere posizionate appena accavallate l’una sull’altra in teglia, in più strati sovrapposti ma di volta in volta accuratamente “unti in superficie con un mazzolino di prezzemolo intinto d’olio”. Proprio come nella pasta sfoglia, il grasso (olio anziché burro) fungerà da isolante dei singoli strati sottili di pasta, per donare un risultato incredibilmente croccante.
Note bibliografiche: S. Rossi, Le ventiquattro bellezze della torta pasqualina, Sagep Editori Genova 2011
Scritto da Sara Albano
Laureata in Scienze Gastronomiche , raggiunta la maggiore età sceglie di seguire il cuore trasferendosi a Parma (dopo aver frequentato il liceo linguistico internazionale), conseguendo in seguito alla laurea magistrale un master in Marketing e Management per l’Enogastronomia a Roma e frequentando infine il percorso per pasticceri professionisti presso la Boscolo Etoile Academy a Tuscania. Dopo questa esperienza ha subito inizio il suo lavoro all’interno della variegata realtà di Campoli Azioni Gastronomiche Srl, , dove riesce ad esprimere la propria passione per il mondo dell'enogastronomia e della cultura alimentare in diversi modi, occupandosi di project management in ambito di marketing e comunicazione e consulenza per il food service a 360°, oltre ad essere il braccio destro di Fabio Campoli e parte del team editoriale della scuola di cucina online Club Academy e della rivista mensile Facile Con Gusto.
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