Un film ambientato nella Napoli dell'800 che racconta "la fame" e le speranze racchiuse nel cibo
È senza dubbio tra i formaggi più antichi al mondo: scopriamone storia, caratteristiche di produzione e impieghi in cucina
Il formaggio di pecora era noto già al tempo di Omero, quindi almeno 700 anni prima di Cristo, tanto che lo ritroviamo citato come prodotto fatto dal gigante Polifemo al tempo dell’arrivo di Ulisse nella Terra dei Ciclopi. Siciliano, Sardo, Umbro, Toscano sono tra i formaggi pecorini i più importanti in Italia, ma il primato spetta al Pecorino Romano, ritenuto dagli studiosi il più importante e il più antico di tutti.
Leggenda vuole che il merito della scoperta casuale del Pecorino Romano sia da addebitarsi a un pastore che decise di trasportare il latte delle sue pecore e capre, non avendo a disposizione recipienti sufficienti, utilizzò lo stomaco dei capretti e degli agnelli macellati: la sorpresa fu che al termine del viaggio il latte risultava coagulato, con separazione del siero, dando origine alla produzione di questo formaggio strettamente locale.
Documenti scritti non mancano per dimostrare che il Pecorino Romano era prodotto già ai tempi preromani, quando la città eterna fu fondata (21 aprile 753 .C.) da Romolo e Remo, discendenti di Ascanio figlio di Enea, troiano in fuga giunto nelle terre dei Latini, dei Rutuli e degli Etruschi, ricche di greggi di pecore e capre. I popoli laziali e toscani di quel periodo lo producevano principalmente come cibo per i soldati (uso passato poi anche ai Romani una volta affermatisi come dominatori) in aggiunta a pane grossolano e zuppe di farro e altri cereali ancestrali; fu proprio questo uso che diffuse il pecorino e la tecnica di produzione in diverse parti dell’impero Romano, in primis però in Toscana e Sardegna, dove però la conoscenza dei formaggi di pecora era già affermata anche se meno accurata.
Di pecorino scrissero Plinio il Vecchio, Galeno, Ippocrate, Varrone, Moderato, Columella, Marone, lodandolo come fonte alimentare gustosa e nutriente per i soldati, specialmente di fanteria, alimento con proprietà non solo nutritive ma anche preventive di carenze minerali e vitaminiche. L’uso domestico di questo formaggio si diffuse però solo dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), quando la scena fu conquistata da continue guerre intestine tra le popolazioni italiche, con tanti soldati reduci che vagavano per le campagne e villaggi seminando il panico con la loro violenza, oltre che da frequenti pestilenze e carestie.
Perfino Carlo Magno (714 – 842 d.C.) si narra fosse goloso di questo formaggio, tanto da portarlo anche in Spagna, ma fu intorno all’anno Mille che cominciò a svilupparsi la produzione a fini commerciali del Pecorino Romano, con un successo tale da richiedere un incremento delle greggi, con estensione dell’area produttiva alla Toscana (Grosseto) e alla Sardegna, terre in cui la pastorizia era ben radicata e di qualità. Oggi la Sardegna è la regione in cui si produce la maggior parte del Pecorino Romano, in quanto nel 1884 il sindaco di Roma vietò la salagione e stagionatura del formaggio in città, per cui molti casari romani si spostarono nell’isola, luogo ideale per la pastorizia e la produzione (molti isolani smisero di produrre il Fiore Sardo per passare al più remunerativo Pecorino Romano).
Ma veniamo ad oggi e diciamo subito che il prestigio di questo formaggio è immutato, tanto che se ne producono ogni anno circa 350.000 quintali, con una qualità tale da consentire nel 1996 il riconoscimento DOP con il Reg. CE 1107/96. Il disciplinare di produzione statuisce che questo formaggio si può produrre soltanto nell’intera Sardegna, in tutto il Lazio e nella intera provincia di Grosseto.
Si tratta di un formaggio a pasta dura (meno del 40% di umidità) e cotta (cottura cagliata 48-58°C), grasso sulla s. s. pari almeno 36% (ma nella pratica 43 - 50% quindi grasso), con proteine sulla s.s. pari circa al 33 - 43%, sale per 4,5 – 8 g/100 g, prodotto con latte di pecora (di solito di razza sarda) fresco e intero (quindi nessuna scrematura), raccolto la sera e la mattina. Il latte viene, filtrato viene portato a 38-40°C (quindi trattasi di latte crudo e non pastorizzato), vi si aggiunge il caglio di agnello in pasta (è quello che determina la formazione di profumi forti e della nota piccante per stagionatura), proveniente da allevamenti della zona di produzione indicata dal disciplinare.
Formatasi la cagliata nel giro di 10 minuti, completamente fatta dopo 30 minuti in tutto, questa viene rotta (ottenendo granuli che somigliano a chicchi di mais) e cotta a 45-48°C per 10 minuti nel suo siero. Poi la si pone in teli a sgocciolare in forme da 20/35 kg (la tradizione romana vorrebbe 33-35 kg e forse anche più). Dopo il raffreddamento (24 ore) si imprime il tipico marchio (testa di pecora stilizzata) su tutta la superficie della forma, spesso con il nome del produttore, quindi la si pone nelle fascere per 15 gg; si procede poi alla salatura a secco (raramente in salamoia), con interventi giornalieri di cura (girare, spazzolare, salare).
Oggi le forme di Pecorino Romano DOP si pongono in celle frigorifere, ma un tempo era necessario oliare tutte le forme per evitarne il deterioramento. La stagionatura si protrae per almeno 5 mesi per il formaggio da tavola, e per almeno 8 mesi per il formaggio da utilizzarsi grattugiato. Si può effettuare la cappatura, un rivestimento ottenuto con argilla (terra d’ombra ocra), olio di vinaccioli e carbone di legna (detto nerofumo), che conferisce al formaggio il tipico colore scuro; in alternativa la crosta è semplicemente bianco opaco con sovrimpresso il marchio.
La forma del Pecorino Romano è cilindrica a facce piane, il diametro del piatto è compreso fra 25 cm e 35 cm, l’altezza dello scalzo compresa tra 25 cm e 40 cm (per cui il peso finale oscilla tra 20 e 35 kg). L’aspetto esterno mostra una crosta sottile, di colore avorio o paglierino naturale, talora cappata con appositi protettivi; una pasta con struttura compatta o leggermente occhiata che al taglio presenta un colore variabile dal bianco al paglierino più o meno intenso, in rapporto al latte di partenza (quindi in funzione di razza e alimentazione delle pecore tra pascolo e ovile) e alle condizioni tecniche di produzione.
Il Pecorino Romano DOP ha un sapore aromatico e lievemente piccante per il formaggio da tavola; piccante, intenso e gradevole a stagionatura avanzata nel formaggio da grattugia. In commercio lo troviamo in tre tipologie: scelto invernale (prodotto da novembre a febbraio, con pasta dalle caratteristiche ottimali), mercantile (alcune imperfezioni come lievi occhiature e spaccature su bordo e facce), scarto (con importanti ed evidenti difetti). Recenti proposte di modifica al disciplinare riguardano la razza di pecore (oggi qualunque razza, dopo solo da razze autoctone della zona di produzione come Sarda, Vissana, Sopravissana, Comisana ed altre), la tipologia Pecorino Romano Extra (minor contenuto di sale) e Riserva (14 mesi di stagionatura).
A livello nutrizionale gli antichi romani non si sbagliavano di certo sul valore del loro pecorino, dato che le attuali analisi dimostrano che apporta molte più proteine del formaggio di vacca, e calorie abbondanti grazie ai grassi contenuti e alla poca umidità presente (385 kcal/100 g), oltre a vitamine del gruppo B e tracce di altre, insieme a minerali come calcio, sodio, fosforo, cloro, zolfo e altri minori.
Il Pecorino Romano DOP è l’ingrediente fondamentale di molte ricette, spesso di origine locale, ma non mancano le novità dei cuochi. Quello di più breve stagionatura è un ottimo formaggio da tavola da gustare sia da solo che con un’aggiunta di miele (preferibilmente di acacia, ma vanno bene anche di lavanda, di quercia, di girasole, tutti delicati, poco o abbastanza profumati, tali da non annullare i sentori e sapori del Pecorino), confetture di mele, pere, fichi, ma anche di pesche e albicocche, oppure affiancato dalla dolcezza sobria delle noci con la loro nota oleosa, alle olive (preferibilmente poco salate, dal momento che questo formaggio è già di per sé particolarmente sapido) o vicino a ortaggi crudi come i radicchi, le fave, le punte di catalogna e simili.
Il Pecorino Romano DOP da 8-12 mesi di stagionatura si consuma grattugiato, arricchendo piatti tipici di Roma in paste come la carbonara, l’amatriciana, la cacio e pepe, la gricia, oppure spolverato sulla trippa alla romana o altri piatti simili a base di frattaglie, ma non è da disdegnarne l’uso anche all’interno di paste farcite o rotoli di carne, involtini, saporiti panzerotti e calzoncini, polpettoni, rotoli di frittata: senza dubbio quando si vuole caratterizzare molto una pietanza il Pecorini Romano è da preferire perché non passa inosservato.
Il vino giusto per il Pecorino Romano da tavola, che si presenta piacevolmente salato, tendente al dolciastro, aromatico e saporito, con pasta tenera, è quello bianco, secco, giovane nella logica che vede un formaggio aromatico, sapido, persistente in bocca, come il pecorino, affiancato, da un vino con persistenza aromatica intensa, non troppo acidulo (sale del formaggio e acidità eccessiva si sommerebbero con eccessiva durezza in bocca), morbido per alcol e glicerina (per contrastare la salinità). Anche un rosso giovane, secco, moderatamente alcolico, va bene sempre che sia profumato e non eccessivamente acidulo, con persistenza aromatica intensa una volta in bocca. Se passiamo al pecorino più stagionato (5-12 mesi), aumenta la sapidità, compare la piccantezza e il sapore è più intenso, per cui sarà adatto un rosso secco, caldo per alcol (la concentrazione del sale con la maggiore stagionatura, determina salivazione che l’alcol asciuga), maturo (due anni dalla vendemmia), morbido, profumato. Se il Pecorino fa parte della preparazione, ricordate sempre che il vino deve tenere conto anche delle caratteristiche finali della pietanza e non solo del sapore del formaggio stesso.
Note bibliografiche
Mucchetti – Neviani, Microbiologia e tecnologia lattiero – casearia, Ed. Tecniche Nuove
Mensile “Il mio vino”, Ed. Il Mio Castello;
AA.VV., Tecnica dell’abbinamento cibo - vino, Ed. AIS
Le guide de l’Espresso - I Formaggi d’Italia
Ruffa – Gho, Atlante dei formaggi italiani, Libreria geografica Slow Food
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