L’attività casearia nel ‘500

Una storia che riconduce al primo trattato moderno di tecnica casearia nell’opera rinascimentale di Agostino Gallo

L’attività casearia nel ‘500

Discorrere di zootecnia e arte casearia non può prescindere da un chiaro riferimento alla Lombardia, regione maestra per tutta l’Italia, in entrambi i settori. E’ da questa regione che sono stati diffusi in tutto il Paese i progressi tecnici e tecnologici nell’allevamento bovino da latte e nella produzione dei formaggi, di cui essa è la più ricca di tipologie, insieme al Piemonte.

Dell’agricoltura e della zootecnia lombarda nel ‘500, compresa l’arte casearia, parlava ai suoi tempi Agostino Gallo (il più noto agronomo italiano del XVI sec., nato a Poncarale nel 1499 e morto a Brescia nel 1570) in una parte dell’opera Le vinti giornate dell'agricoltura et de' piaceri della villa: i principi che vengono in essa espressi, sono di carattere così generale da tornare utili (nell’epoca in cui Gallo scrive) a tutti coloro che allevano animali da latte per poi produrre formaggio di qualità. E questo vale per tutto il nostro Paese.

L’opera viene scritta nel 1564, siamo quindi nell’età moderna (dopo la scoperta dell’America del 1492, ndr) quando il formaggio costituiva l’unica alternativa alla carne e ai pesci salati, durante i viaggi per mare che si facevano sempre più capaci di coprire grandi distanze. Produrlo era quindi fonte di notevole reddito, ma bisognava produrre buon formaggio per restare sul mercato… già ai tempi dunque era sconsigliato produrre alimenti di bassa qualità! La domanda di questo prodotto era notevolmente aumentata in tutta Europa, in quanto il formaggio, grazie alla lunga stagionatura, era considerato una derrata a lunga conservazione. I più richiesti erano i formaggi padani, in particolare i Piacentini e i Lodigiani dalla tipica forma a botte, oggi caratteristica del Parmigiano Reggiano. Ai prodotti lombardi erano preferiti però i formaggi bresciani (non a caso, l’autore era bresciano) per alcune importanti differenze: più delicati grazie ai migliori pascoli e ai fieni dall’alto valore nutritivo, altezza dello scalzo di appena quattro dita, capacità quindi di ricevere il sale in ogni parte, mentre i lodigiani e piacentini essendo alti un palmo e più non riuscivano a ricevere bene il sale nel loro interno e risultavano, perciò, maggiormente soggetti a deterioramento per sviluppo di batteri e muffe durante i lunghi percorsi sul mare.

Superando le diversità nel peso e nelle dimensioni, i formaggi padani del ‘500 possono essere considerati molto simili a quelli di oggi, tranne che per il grana in quanto allora era ottenuto da latte misto vaccino e ovino, tecnica grazie alla quale spiccava un prezzo maggiore rispetto a quello di sola vacca. Dai trattati caseari dell’epoca si evince che grande attenzione veniva posta alla qualità dei foraggi, da cui si deduce la profondità delle conoscenze fisiologiche e casearie degli allevatori del tempo. Non si trattava di persone “sciatte e ignoranti” come molti potrebbero pensare, per cui non davano da mangiare agli animali allevati qualsiasi foraggio ma solo quello selezionato con determinate caratteristiche, coltivato perciò solo su alcuni terreni e con precise metodologie agrarie, tramandate nei secoli dalle precedenti generazioni di allevatori e di trasformatori.

Si tenga conto che ancora non esistevano i concimi chimici e altri prodotti attuali, ma l’unico concime era il letame; non esistevano macchine agricole ma solo animali che eseguivano i lavori al terreno con attrezzi grossolani e con grande fatica di uomo e animali. Proprio per ricevere i migliori foraggi le mandrie venivano mandate a pascolare sui pascoli alpini nel periodo tra la tarda primavera (inizio di giugno) e la tarda estate, quindi nel periodo della piena lattazione dell’animale, per cui di grande qualità era il latte per la trasformazione in formaggio. Dopo l’estate, le mandrie venivano riportate in pianura in quanto i pascoli alpini da ottobre a maggio non offrivano alcuna possibilità di alimentazione per gli animali (nelle stalle avrebbero ricevuto per alimento i foraggi conservati, cioè fieno e insilato). Nell’attività casearia del ‘500 la pianura riveste perciò solo un ruolo complementare anche se necessario, mentre la centralità è rappresentata dall’alpeggio estivo.

Il proprietario di terreni in pianura pertanto non faceva l’allevatore, ma solo il produttore di foraggi per l’inverno e il locatore di stalle per quando gli animali tornavano in pianura, dove avrebbero trascorso tutto il tempo nelle stalle, fino all’inizio dell’estate successiva. I proprietari di malghe (le fattorie di montagna site negli alpeggi) e delle mandrie di animali, sia pecore che vacche, produttori di formaggi molto ben pagati, potevano permettersi anche di pagare prezzi alti per il fieno invernale, tanto da far diventare economicamente rilevante la coltivazione dei foraggi in pianura rispetto ad altre coltivazioni utili all’alimentazione umana (cereali, vite da vino, olivo, ortaggi).

Ovviamente accadeva che i produttori di fieni cercassero il massimo profitto, economizzando nelle spese per la cura del fieno, ma i malghesi non si lasciavano raggirare e controllavano molto bene, per cui, se trovavano nella partita del fieno umido o ammuffito, cominciavano le contestazioni e il rifiuto del pagamento della merce. Tutto ciò evidenzia che già ai tempi la professionalità dei malghesi era notevole. Anche nella sostituzione (la cosiddetta rimonta) delle vacche ormai a fine carriera (12-16 anni di età), i malghesi ponevano molta attenzione economica: se il fieno costava poco, allevavano le vitelle nate internamente, se il fieno saliva di prezzo vendevano ai macellai le vitelle e i vitelli, e compravano le nuove mucche già incinte. Queste vacche venivano acquistate in zone tanto ricche di pascoli che agli allevatori del posto conveniva di più vendere le vacche che fare formaggio. Il loro prezzo non era elevato perché gli allevatori non spendevano molto in alimentazione per portarle al peso della vendita, proprio perché il foraggio fresco o conservato era abbondante.

Le zone più rinomate per questi acquisti di animali erano la Valcamonica e la Svizzera.  In altre parole, per i malghesi lombardi il formaggio era pagato così bene che non conveniva destinare risorse all’allevamento di vitelle per sostituire le vacche vecchie. L’attività casearia era quindi prevalente su tutte le altre per l’allevatore lombardo.

La razza di vacche preferita era la Bruno-Alpina, molto rustica e produttiva, resistente agli spostamenti annuali tra alpeggi e pianura, dalla produzione costante di latte, grazie all’apparato mammario ampio e ben sviluppato. Per la prima volta la vera ricchezza della vacca viene vista nella mammella, mentre Columella l’aveva posta nella produzione di altri animali per la forza lavoro nei campi e in altri settori. Secondo Agostino Gallo, una Bruno–Alpina ben allevata era capace di produrre in una lattazione circa 12 q di latte (oggi si arriva tranquillamente a 60, 90 epiù per la Frisona), per la produzione di 99 kg di formaggio (resa del 10% circa), che sarebbe stato venduto a ben 7-8 scudi (oggi sarebbero 112 € x 8= 896 € cioè 9 € al chilo).

Nella sua opera, il Gallo (tramite i personaggi di fantasia) evidenzia sempre come la buona razza deve accompagnarsi per forza a buona alimentazione degli animali da latte; in particolare per la prima volta viene affermato il principio per cui l’alimentazione delle vacche da latte deve essere integrata con proteine e con sali minerali, in quanto i foraggi, sia freschi che conservati, ne sono poveri. L’autore indica i precetti per una stalla razionale, per la scelta e cura del toro nell’allevamento, per il rapporto maschi/femmine nella mandria. Viene sconsigliato in particolare di tenere durante l’inverno le vacche in stalle chiuse e afose, senza che si possano muovere: tutto ciò, fa rilevare l’autore, fa stare male gli animali, i quali mangeranno molto meno e produrranno meno latte. Anche d’inverno per alcune ore la vacca deve stare all’aperto e muoversi. Anche i parti delle vacche e delle pecore devono essere ben correlati per fare in modo che quando arriva il momento dell’alpeggio le mucche hanno finito di allattare i vitellini e le pecore gli agnellini; alla malga tutto il latte prodotto in alpeggio sarà destinato alla produzione di formaggio.

I personaggi dell’opera passano poi a discutere di tecnica casearia, specificando che il latte invernale e quello dell’alpeggio vanno trattati diversamente, non solo perché differenti ma anche per le temperature esterne (ricordiamo che siamo nel 1500: nessuna stufa, nessun ventilatore o condizionatore). Emerge dai colloqui che d’inverno, essendo il latte scadente è meglio destinarlo alla produzione di burro, mentre in estate quello dell’alpeggio darà formaggi tanto ben pagati da rendere conveniente addirittura non scremare il latte, utilizzando così anche la panna per produrre il formaggio, non producendo burro. Già si anticipa il principio per cui se il formaggio è fatto con latte non scremato, la cagliata deve essere più cotta e meglio spurgata in modo da evitare alterazioni dei formaggi durante la stagionatura.

Discutendo tra loro, i personaggi concordano che sulle successive fasi della caseificazione, e cioè che compiuta, al termine del primo mese, la salatura, le forme saranno riposte in un altro ambiente, possibilmente un solaio aerato, dove, ben raschiate, dovranno essere ripetutamente oliate e levigate, fino a quando la loro buccia avrà acquisito la durezza, l’elasticità e la lucentezza necessarie per il trasporto e la vendita. Questa fase avrà la durata di sei mesi, dopo di che le forme potranno maturare anche per altri due o tre anni: l’invecchiamento conferirà ai formaggi padani la grana inconfondibile e l’aroma caratteristico. Per chi volesse pasta fine e profumo più delicato, i personaggi consigliano di mettere le forme sotto il miglio (un cereale molto diffuso all’epoca, sostitutivo del grano), o immergendole in olio d’oliva o di lino.

Fonti consultate

  • A. Saltini, Storia delle Scienze Agrarie, Edagricole
  • www.treccani.it
  • www.liberliber.it
  • www.wikipedia.it

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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