Esistono tanti vegetali dalle sfumature di gusto similari ma al contempo ben distinte, da conoscere per un risultato più consapevole in cucina
Il suo “De re rustica” come testimonianza fondamentale del valore millenario dell’olio, tra sacralità e profitti
L’origine della coltivazione dell’olivo si perde nei tempi e la sua diffusione coincide con lo sviluppo delle popolazioni stanziate nel bacino del Mediterraneo. Secondo un mito riportato dal poeta greco Pindaro l’olivo fu portato dall’eroe dorico Eracle dal paese degli Iperborei (più in là del vento Borea) fino al santuario di Olimpia, in Grecia.
L’olivo quindi fin dall’inizio fu legato agli dei, divenendo anche nei secoli successivi non solo simbolo di purezza e alimentazione sana, ma anche emblema di un legame sacro con gli dei, sconfinato poi nelle religioni di tutti i paesi del mondo, in primis in quella cristiana. Si può quindi affermare che fin dall’alba della civiltà l’olivo condivide con la vite la scena, come prima donna, del Mediterraneo tra le coltivazioni: le due piante crescevano insieme negli orti dei principi greci, e anche gli scrittori dell’antica Roma riconoscono la sacralità della pianta e del suo prodotto finale: l’olio.
Catone (Marco Porcio Catone: Tusculum 234 a.C. - Roma 149 a. C. ,nella sua opera Liber de agri cultura) trattava prima l’olivo della vite, mentre Columella [Lucio Giunio Moderato Columella: Gades (oggi Cadice – Spagna) 4 d.C.-70 d.C.] nella sua opera De Re Rustica inverte tale ordine, annotando che la minore ampiezza della trattazione di olivo e olio nella sua opera è dovuta alla minore estensione nell’impero romano della coltivazione dell’olivo rispetto a quella della vite, come minore importanza aveva il commercio dell’olio rispetto a quello del vino.
Nonostante ciò Columella compone un ampio e dettagliato trattato di olivicoltura e di tecnica olearia, con cognizioni botaniche e indicazioni tecnologiche, destinato a restare valido fino all’inizio della seconda rivoluzione agraria, tra il 1700 e il 1850, nella campagne inglesi in concomitanza e stimolata dalla rivoluzione industriale (la prima si ebbe nel neolitico, 10.000 anni prima di Cristo, quando l’uomo passò dalla caccia e pesca alla coltivazione delle piante commestibili).
Nella parte del suo libro dedicata alla trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli, Columella tratta dell’olio dilungandosi inizialmente sui locali da destinare alla trasformazione, anticipando tante conclusioni a cui oggi di conferisce molto rilievo nella elaiotecnica. In primo luogo, raccomanda che il frantoio sia esposto a mezzogiorno, in modo da ricevere anche in autunno inverno (periodo della lavorazione delle olive) una giusta insolazione, evitando così di dover riscaldare il locale per rendere agevole l’estrazione dell’olio dalle olive, operazione più difficile se nel locale la temperatura è bassa.
Columella sottolineava anche che bisognava evitare di accendere fuochi nel locale in quanto l’olio è una sostanza adsorbente i fumi, con conseguenze negative su profumo e sapore e quindi sul prezzo. Egli consiglia di iniziare la raccolta delle olive a novembre, procedendo poi anche in dicembre e nei mesi successivi se necessario. Se ne otterranno tre tipi di olio: quello acerbo, quello verde e quello maturo.
Quello acerbo si ottiene dalle olive non ancora mature ma appena invaiate, quando si è costretti a raccoglierle per forza in quanto cadute per qualche evento particolare come un temporale violento. E’ un olio prodotto in piccola quantità perché da olive non mature, oltre che dal sapore non di riguardo, perché da olive quasi acerbe. Quello verde si ottiene dalla olive mature raccolte in dicembre: sarà abbondante e di buona qualità. Quello maturo sarà l’olio ottenuto dalle olive raccolte dopo dicembre, che per gioco forza non conviene lasciare sugli alberi perché comunque capaci di fornire un olio decente e quindi un reddito per l’agricoltore. Columella consiglia di cominciare a raccogliere quando si verifica l’invaiatura, cioè il passaggio del colore delle olive dal verde al vinoso al rosso al nero finale.
L’autore consiglia di raccogliere le olive a mano, scartando se possibile quelle raccolte da terra (cadute da sole perché ormai stramature e con lipidi ossidati: l’avevano già capito!); scartata era pure la tecnica della raccolta con la bacchiatura (battitura dei rami) per gli evidenti danni che si potevano arrecare alla pianta, compromettendone la vitalità e le future produzioni di olive. In secondo luogo l’autore raccomanda di separare le olive raccolte in un giorno da quelle di un altro giorno, al fine di spremerle nello stesso ordine con cui sono state portate al frantoio: è evidente la volontà non solo di lavorare le olive in tempi brevi dal loro arrivo in deposito, ma anche di evitare di miscelare oli di varietà diverse e con stati di maturazione diversa.
Columella consiglia anche di sistemare le olive raccolte in un giorno su un graticciato in modo da evitare il contatto con terreno o altro materiale, capace di conferire gusto sgradevole all’olio che se ne otterrà, oltre che per evitare la fermentazione dell’acqua di vegetazione che dovesse fuoriuscire dalle olive degli strati più bassi schiaccate dalle altre. Per le attrezzature di trasformazione Columella indica cinque tipi di apparecchi di spremitura delle olive: a mole, il trappeto, il canale, la solea e la tudicola, difficili da identificare in quanto la descrizione è limitata, al contrario di quel che fece a suo tempo Catone descrivendo il trapetum o frantoio a mole, unico strumento da lui individuato per le olive. Probabilmente Columella si rifece a tipi di attrezzature in uso nei paesi africani conquistati da Roma nel bacino del mediterraneo africano.
Sulla successione delle fasi di lavorazione Columella spiega che le olive, una volta ripulite da terra e foglie, dovranno essere portate subito al torchio, poste in ceste nuove (ovviamente per evitare che al nuovo olio vengano trasmessi odori e sapori sgradevoli derivati dalla fermentazione dei residui di olive o di olio, misto ad acqua, rimasti nelle ceste precedenti). Si procederà allora alla frantumazione delle bucce e alla spremitura, aggiungendo due sestari di sale intero per ogni moggio (praticamente circa 1 kg di sale ogni 8 litri di olio); dovranno essere spremute se ciò è consuetudine del luogo le sanse (cioè le paste d’olive ormai prive o quasi di olio).
L’addetto dovrà suddividere l’olio in contenitori o bacili di terracotta, diversi a seconda che trattasi di prima pressione, seconda pressione o da sansa. Non essendovi le centrifughe, l’olio si prelevava nei bacili per affioramento e alla fine dei diversi affioramenti nei differenti bacili si ottenevano gli oli delle diverse pressioni, i quali non dovevano essere mescolati tra loro perché il primo era il migliore e i successivi via via peggiori. L’olio veniva travasato diverse volte per allontanare il più possibile le fecce, per non trasmettere all’olio odori e sapori sgradevoli. Dopo tre spremiture progressive, affioramenti successivi, travasi vari, si giungeva ad ottenere un liquido limpido da riporre nei dogli chiusi [doglio era un grande vaso a forma tondeggiante, nel quale i Romani conservavano liquidi (olî, vino, ecc.) e aridi (grano, legumi)].
Columella precisa infine che la qualità dell’olio dipenderà dalla cura posta nella manipolazione delle olive dal campo al frantoio, dall’ordine e dalla pulizia nelle tre spremiture, dall’attenzione posta nell’operazione di decantazione: la sequenza delle fasi di un processo ancora oggi, a più di duemila anni di distanza, sostanzialmente immutato. Pur essendo oggi difficilmente riconoscibili negli strumenti attuali quelli del tempo di Columella, il genuino olio d’oliva costituisce ancora il prodotto della spremitura meccanica delle olive fresche cos’ come lo descrive lo scrittore iberico. Se oggi dalle sanse dell’ultima spremitura siamo in grado di trarre, tramite solventi chimici, sostanze grasse della stessa natura dell’olio, chi sulla propria mensa esiga il fluido aromatico in cui la tradizione mediterranea ci ha abituati a identificare l’olio d’oliva, deve procurarsi il prodotto di un procedimento fisico che è ancora quello descritto da Columella nel XII libro del De re rustica.
Completando il proprio trattato, Columella fornisce anche dettagli sulla manutenzione dei recipienti in cui l’olio viene riposto in attesa del consumo o della vendita: dogli e giare per assicurare la migliore conservazione del prodotto dovranno essere impermeabilizzati con cera (ovviamente di api) e ogni anno ripuliti. Al termine dell’impiego saranno lavati con lisciva tiepida, in modo da asportare ogni traccia di olio senza intaccare la ceratura (La lisciva o liscivia è una soluzione liquida, ottenuta dalla semplice bollitura di cenere di buona qualità setacciata. Veniva usata in passato soprattutto per lavare e sbiancare i tessuti, ma anche per tutte le altre pulizie casalinghe e, estremamente diluita, anche per la pulizia di tutto il corpo, grazie al suo potere detergente, sgrassante e disinfettante e al delicato e piacevole odore che rilascia).
Ogni sei o sette anni, dice l’autore, il rivestimento di cera dovrebbe essere rinnovato. Al termine della trattazione, Columella discute anche di oli medicati, ottenuti con spezie ed erbe aromatiche. Per ottenere il famoso olio gleucino Columella consiglia di far macerare in olio: canna aromatica, giunco odoroso, scorza di palma, fieno greco macerato nel vino, radice di iris, anice, ecc.
Nella sua Canzone dell’Ulivo, Pascoli scrive: “L’ulivo che soffre ma bea, da ciò che è più duro, ciò crea che scorre più molle”
Quando parliamo di olio non dimentichiamo mai la sua sacralità, l’essere fonte di reddito per tanti agricoltori, nonché apportatore di benessere per tutti coloro che lo apprezzano, mediterranei o meno che siano!
Note bibliografiche
G. Bini, L’Olivo albero degli dei, SugarCO edizioni
A. Saltini, Storia delle Scienze Agrarie, Edagricole
AA.VV., Enciclopedia mondiale dell’olivo, C.O.I.
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