Risotto avvolgente alle note affumicate di provola e speck, tostato al whisky
Torta fritta, gnocco fritto, crescentina, chisolino, pinsolino: ecco le differenze tra le delizie da abbinare sapientemente a salumi e vini
Torta fritta a Parma, Gnocco fritto o Chisol a Reggio Emilia e Modena, Crescenta o crescentina a Bologna, Chisolino a Piacenza, Pinsolino a Ferrara, tanti sono i nomi di una vera squisitezza della gastronomia emiliano - romagnola, riconosciuti PAT dalla Regione Emilia Romagna: Cherselnta sotto le braci/ Crescentina, Chisolini/Chisulen/Chissò, Crescenta/Carsent, Crescenta fritta/Cherscenta frètta, Gnocco fritto/Gnocc frètt/Gnocc/Al Gnocc frètt/’L Gnoc.
Per quanto mi riguarda prendo lo spunto dalla torta fritta di Parma, degustata con salumi, formaggi e buon vino frizzante locale, per dire due parole sull’argomento, sul quale la letteratura gastronomica locale è vasta, in quanto di queste paste fritte molte città emiliane e romagnole rivendicano la paternità. Non dimentichiamo però che le paste fritte sono tipiche di altre regioni italiane come Liguria e Piemonte, ma specialmente del Sud, dove è diffusa la pizzetta fritta (fritta in olio e non strutto perché elemento pochissimo diffuso data la ricchezza di olivi), bollosa, croccante e zuccherata in superficie.
Si tratta di una preparazione ricca di storia che ci riporta al tempo dei Longobardi dominatori di gran parte dell’Italia dal 568 al 774 d.C., popolo che con il termine knohhil, indicava il nodo del legno, con riferimento all’iniziale forma di cilindretti della pasta che poi sarà stesa e fritta (stessa radice per i canederli altoatesini), inconsapevolmente responsabili del nome Lombardia per la regione e Lombardi per designare le popolazioni padane già nel XIV secolo).
Le paste fritte hanno sempre rappresentato un prodotto di fattura domestica, tanto che ogni casa aveva la sua ricetta particolare, ma rigorosamente cotta nello strutto. Quelle elencate già nel titolo di questo articolo sono paste fritte, gonfie, dorate, da molti definite poeticamente “nuvole” per l’aspetto gradevolmente leggero e soffice, gradite sia dolci che salate, buone per pranzo e cena, oltre che come street food o da consumare con un aperitivo, spuntino anche se fatte il giorno prima, in trattoria, al ristorante, al bar.
Si tratta di un cibo ormai divenuto elemento caratterizzante sia delle le popolazioni genericamente padane, che degli italiani all’estero (vengono preparate anche dai nostri emigrati in Sud America). Secondo molti studiosi di storia della cucina italiana, furono i longobardi a introdurre l’uso della strutto per friggere, oltre che come componente di molti impasti: erano infatti allevatori di maiali, grazie ai quali potevano preparare cibi semplici ma energetici, utilissimi a popoli nomadi come loro, barbari sempre in cerca di terre da conquistare, non avendone una tutta loro, poveri di beni e di cultura, molto semplici e rozzi (si affineranno poi governando l’Italia e la cultura latina).
La pasta fritta era però già conosciuta al tempo dei Romani (le lagàne di questi, simili a tagliatelle e lasagne, venivano bollite e condite oppure fritte, aggiungendo poi del miele e spezie; alcuni le considerano anche antenate di tigelle e piadine se cotte su piastre roventi), fritta però in grassi diversi dallo strutto (sconosciuto). Come visto, le paste fritte emiliano romagnole assumono nomi diversi a seconda della città considerata: come visto in apertura, le paste fritte assumono denominazioni diverse, anche se i termini più noti sono la Torta fritta e il Gnocco fritto: è nell’omissione dell’articolo determinativo maschile “lo” che gli studiosi intravedono la decisa origine longobarda del termine; si tratta di un solecismo (cioè di un errore linguistico grammaticale o di pronuncia) da correlare da un lato al fatto che nella lingua longobarda esisteva solo l’articolo determinativo maschile “al” al posto di “il”, passato poi anche nel dialetto emiliano-romagnolo, dall’altro alla pronuncia dialettale nioch per gnocco, da cui l’affiancamento di “al” a “nioch”, quindi “al nioch” cioè “il gnocco”, accettabile perché solecismo diffuso nelle popolazioni della zona.
L’origine barbara delle paste fritte elencate, spiega la semplicità della ricette originale fatta di farina, acqua, sale e grasso di maiale per friggere, inizialmente preparata come dolce. Vi si aggiungeva miele perché più facile e meno costoso dello zucchero, prodotto dalla canna in India alcuni secoli prima dell’era cristiana, portato nel bacino del Mediterraneo con gli scambi commerciali tra India e Impero Romano, prodotto poi anche dagli arabi in tutte le terre conquistate e in quella d’origine dell’Islamismo, dove fu introdotta la canna da zucchero. Si potevano perciò considerare come delle chiacchiere di Carnevale! Le paste fritte citate sembrano uguali tra loro, ma così non è perché varia lo spessore della pasta, pur restando nell’ambito dei millimetri (più spessa nello gnocco fritto [bisogna specificare fritto perché a Modena lo gnocco è anche un tipo di focaccia] e meno nella torta fritta), la forma (rettangolare, romboidale, tonda), la ricetta dato che in alcune si usa il lievito e in altre no, oppure impastare con acqua semplice o gassata o birra.
Delle paste fritte non riporterò ricette, perché facili da trovare nel web, dove peraltro i video spiegano nel dettaglio, ma segnalerò alcune particolarità interessanti per chi emiliano romagnolo non è, ma vuole rendersi conto di ciò che si accinge a degustare (piccoli consigli per noi profani). Una caratteristica delle varie paste fritte è quella di essere di per sé stesse piatto unico e completo, pronto da mangiare senza fronzoli e da sole (anche se l’abbinamento di formaggi e salumi esalta il tutto), al contrario di altre due specialità emiliane, la piadina e la tigella che abbisognano normalmente del companatico.
Importante quando ci si accinge a mangiare una delle paste fritte, è l’effettuazione rapida (quasi istintiva) di una rapido esame visivo, olfattivo, gustativo e manuale per valutarne la qualità. Con lo sguardo (esame visivo) valuteremo lo spessore della pasta, elemento da cui dipende se l’elemento sarà ben cotto o meno (ideale 1 mm); poi guarderemo il colore che se dorato sarà indice di corretta cottura e buon sapore, al contrario se pallido o non omogeneo; passeremo poi a osservare la forma che sarà tonda per il chisolino piacentino, a rombo o rettangolare (7-8 cm di lato a Parma, appena più piccoli a Modena e Reggio Emilia, più grande per la crescentina), seguita dal gonfiore che dovrebbe essere notevole (al contrario indica cottura scorretta, spessore eccessivo), oltre dalla presenza di segni inusuali, come di forchetta, o buco o schiacciamento centrale, negativi.
Annusare la pasta fritta, che deve essere servita caldissima, ci consentirà di percepire un odore di fritto gradevole o sgradevole (grasso di frittura scarso o scadente, purtroppo ad oggi spesso sostituito dallo strutto con miscele di oli di semi ad hoc per la frittura nel campo della ristorazione), nonché di lievito e aromi aggiunti (dovuti sia ad aggiunte non tradizionali all’impasto come birra, strutto, olio evo, patata, polenta, uovo, stracchino, aceto, acquavite o altri distillati di vino o frutta, sia a gusti personali del preparatore come olive tritate, capperi, origano, aglio).
Giungiamo infine alla degustazione (esame gustativo) con la quale apprezzeremo in bocca il calore della preparazione (se fredda, come accade se la si mangia il giorno dopo, si sente molto il grasso della frittura e la pasta floscia e molle), il sapore del fritto (quindi del grasso usato per friggere) e i cosiddetti retrogusti che si sviluppano nella deglutizione per il collegamento bocca –naso, oltre alla consistenza della pasta. Prima di mangiare la pasta fritta ci aiuterà molto anche un esame manuale di questa, perché con le mani piegheremo e spezzeremo la pasta valutandone la consistenza e pieghevolezza (utile per le varie farciture).
Come mangiare la pasta fritta, comunque denominata? Diciamo subito che per aspetto, sapore, profumo è ottima da sola (potremmo paragonarla a un piccolo panino appena sfornato), ma diventa grandiosa con lardo, prosciutto crudo, culatello, pancetta, salame di Felino, spalla di San Secondo, cicciolata e tutte le altre prelibatezze della salumeria emiliana, e non di meno con i formaggi: sarà buona abitudine ripiegare la pasta fritta per contenere sia il formaggio che i salumi o la fettina sottile di lardo, e non mangiarle separatamente. Discorso diverso per il Parmigiano Reggiano locale, perché questi si mangiano a scaglie, per cui alterneremo il boccone di formaggio con quello di pasta fritta; ma si presteranno benissimo anche formaggi morbidi… provate ad esempio a spalmare un po' di crescenza o stracchino! Date le caratteristiche di pasta fritta e companatici vari, abbineremo preferibilmente vini giovani, secchi, magari vivaci o frizzanti, sia rossi che bianchi.
Come già detto, la pasta fritta può essere servita anche in versione dolce, semplicemente cosparsa di zucchero a velo, oppure (specialmente se del giorno prima, afflosciata, molliccia, da ripassare in forno) abbinata a crema fritta, marmellate (agrumi), confetture (frutta diversa dagli agrumi), composte di frutta, o semplicemente con latte e caffè a colazione (un po' come a Genova, dove la famigerata focaccia si consuma inzuppata nel cappuccino!).
Note bibliografiche
- E. Maestri, Nuvole fritte, Ed. Wingsbert House
- M. Lodi, Tigelle, gnocco fritto & borlenghi, Ed. Monte Università Parma
- L. Bonacini, La coppia perfetta, Ed. Artestampa
- Elenco PAT - AOOGAB Ministro - Ufficio del Capo Gabinetto - Prot. Uscita N.0001375 del 10/02/2020
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