Tempo di vincotto

Durante le feste compaiono sulle tavole tante ricette rese uniche dal sapore di vino cotto e altri prodotti similari: scopriamoli insieme

Tempo di vincotto

Quando parliamo di vincotto, la nostra mente subito immagina vassoio con dolci coperti di questo prelibato nettare, che affonda le sue radici nel profondo terreno della storia antica. Precisiamo che a rigor di logica dovremmo parlare di vincotto per il prodotto marchigiano e abruzzese, mentre dovremmo parlare di mosto cotto per il prodotto pugliese. Infatti, mentre il primo può fregiarsi del nome “vino” perché fermentato dopo la cottura, il secondo non può farlo perché si tratta di un mosto semplicemente concentrato e non sottoposto a fermentazione. Quindi avremo di fronte sempre un prodotto molto dolce, ma mentre il primo è fermentato, con l’arricchimento quindi di profumi e sapori derivati dalla fermentazione alcolica, oltre che dalla cottura di concentrazione, il secondo ha profumi diversi e non fermentativi.

Detto questo, diciamo subito che del vincotto parlano gli antichi scrittori Romani nei testi di agricoltura ed enologia (come Plinio il Vecchio e Columella), oltre ad altri documenti del XVI secolo (come quello Sante Lancerio – bottigliere del papa Paolo III – e di Andrea Bacci e Gabriele Rosa nel XIX secolo). I citati scrittori romani riferiscono del procedimento di concentrazione del mosto d’uva (all’epoca indifferentemente rossa e bianca) per ottenere tre tipologie di concentrato molto zuccherino. Il più concentrato era la sapa (corrispondente all’attuale saba romagnola) ridotta di due terzi rispetto al volume iniziale, seguiva il defrutum ridotto della metà, concludeva la lista il caroenum ridotto soltanto di un terzo

Ovviamente i tre prodotti avevano caratteristiche di colore, profumo e gusto leggermente diversi tra loro, ma erano accomunati dalla elevata dolcezza. Il ricorso alla tecnica di concentrazione del mosto con successiva fermentazione assicurava un prodotto utile per dolcificare in particolare il vino, spesso scadente per le tecniche approssimate di vinificazione e conservazione, oltre che per la qualità dell’uva spesso molto scadente e inadatta per la produzione di un vini di qualità (sempre con riferimento a ciò che all’epoca si poteva ottenere). Concentrare il mosto e farne vino molto dolce serviva quindi a non buttare via l’uva scadente, a migliorare i vini non eccellenti e quelli che erano sulla via dell’acescenza, a dolcificare prodotti fritti o da forno e altri piatti, visto che lo zucchero non esisteva e il miele (unico altro dolcificante) non era facile da produrre e non era abbondante, per cui risultava costoso e non abbordabile dalle classi meno abbienti, in genere quelle contadine. 

Infatti, spesso per contratto l’uva migliore spettava al proprietario del vigneto, quella più scadente al colono che lo coltivava. Ovviamente il colono non poteva buttar via l’unica uva che gli veniva consegnata, per cui sapendo di non poterla vinificare in quanto scadente, preferiva destinarla alla produzione di vincotto: in tal modo poteva allungarlo o aggiungerlo a vino scadente, riuscendo a bere vino tutto l’anno, un vino magari migliore di quello del suo padrone, viste le preziose caratteristiche del vincotto. Già gli antichi, pur poveri di conoscenze tecniche e scientifiche, apprezzavano il prodotto non solo per quanto già detto ma anche come medicamento per tanti malanni. Il vincotto veniva (e viene ancora) usato come dissetante ed energetico (ovviamente allungato con acqua) durante le faticose giornate nei campi, come balsamo per massaggiare la pelle dei neonati, come sciroppo per la tosse e per altri malanni delle vie polmonari e della gola, come rimedio contro i dolori articolari e l’inappetenza; era nota anche la sua positiva influenza sulla circolazione sanguigna, sulle funzioni dello stomaco e dell’intestino.

Certamente gli antichi nulla sapevano degli antiossidanti abbondantissimi presenti nel prodotto, così come nulla sapevano della caramellizzazione degli zuccheri e della reazione di Maillard, ma la loro lunga esperienza sul campo ha fatto si che il vincotto giungesse sino a noi con le sue utili caratteristiche, inducendo gli studiosi a ricercare il perché di tanti aspetti positivi. L’aggiunta che spesso si fa di mele cotogne durante la cottura, conferisce non solo altri profumi e sostanze, ma in modo particolare arricchisce il vincotto di pectine fibra solubile), con indubbi riflessi sulla densità del prodotto e su suoi effetti positivi per il transito intestinale. 

La cottura del mosto avviene sempre a fuoco diretto, quindi senza ricorrere al bagnomaria: nonostante ciò la fase di concentrazione arriva a durare anche fino a 10 ore. Le uve alle quali oggi si ricorre per il vincotto sono preferibilmente bianche (Zibibbo, Pecorino, Galloppa, Malvasia Bianca, Moscatello Bianco e altre) perchè in tal modo il vincotto non diventa troppo scuro, ma non mancano gli amanti delle uve rosse (come il Sangiovese, il Primitivo, il Negramaro, ecc.), scelta che personalmente condivido essendo le uve rosse già di per sé più ricche di polifenoli antiossidanti sia nelle bucce che nella polpa rispetto alle uve bianche.

Il metodo originale di produzione del vincotto prevede la cosiddetta interzatura, cioè la riduzione di un terzo del mosto, il quale dopo raffreddamento viene posto in piccole botti di legno e lasciato a fermentare. Successivamente si procede a travaso in altre botti, con molta attenzione a non arieggiare troppo il liquido per evitare dannose ossidazioni. In tal modo il prodotto viene lasciato a maturare (se vogliamo “invecchiare”) almeno per un anno, anche se l’invecchiamento di 2-3 anni rende il prodotto ancora più prezioso. La cottura del mosto fresco di uva viene fatta in un recipiente di rame detto caldaro, con l’accortezza di porre all’interno del liquido che si sta scaldando una barra di ferro, per evitare che il rame del caldaro passi in soluzione nel vin cotto (ricordiamo che non solo ne risentirebbe il sapore ma anche che il rame è tossico per l’uomo). Concentrare fino a un terzo o alla metà dipende dal grado zuccherino dell’uva di partenza e quindi del mosto fresco: più è ricco di zuccheri il mosto fresco (per es. 25% di zuccheri) minore può essere la concentrazione nel caldaro. E’ in questa fase che alcuni aggiungono una o due mele cotogne, come già sopra accennato. 

Un metodo diverso da quello originale prevede che il mosto concentrato e raffreddato venga posto in botti di legno rabboccandolo con vincotto più vecchio, per poi fermentare; oppure posto in botti che già contengono vincotto più vecchio, con fermentazione che avviene dopo il rabbocco. Ovviamente alcuni fanno fermentare il vincotto dell’annata e solo quando è pronto lo uniscono a vincotto più invecchiato. Ottenendo un vero e proprio blend. E’ proprio nelle diverse combinazioni illustrate che emerge la bravura del produttore, il qual deve evitare che il blend finale sia peggiore dei prodotti di partenza. Ovviamente viste le temperature raggiunte durante la cottura, il vincotto è praticamente e perfettamente sterilizzato: successivamente il contenuto in alcol e zucchero eviterà lo sviluppo di qualsivoglia microrganismo dannoso. 

Alla fine, il vincotto avrà una gradazione alcolica di circa 14°, un colore dal granato al rubino, un profumo fruttato e un gradevole sapore dolce, con elevata densità. Questo vino si dovrebbe bere caldo e aromatizzato con spezie (cannella, chiodi di garofano, scorza di aranzia), ma è ottimo anche al naturale sempre però riscaldato per abbassare la densità ed esaltare i profumi che giungono al naso. Le spezie possono essere aggiunte anche durante la iniziale cottura: ovviamente bisognerà filtrare prima di porre nelle botti a fermentare.

Scendendo in Puglia, ritroviamo la dicitura di vincotto, ma questa volta essa sta ad indicare un mosto semplicemente concentrato e non fermentato. In tal caso sarebbe giusto parlare di mosto cotto e non di vincotto. Le caratteristiche salutari e nutritiva sono praticamente identiche a quelle del vincotto prima descritto, ovviamente al netto della componente alcolica. In Puglia il mosto cotto viene preparato da mosto di uva (specialmente Negramaro, Primitivo, Mlvasia Nera di Lecce) o da mosto di fichi. Sono entrambi molto apprezzati, ma il secondo lo è di più perché il profumo del prodotto finale è superiore e ricorda esattamente quello dei fichi maturi. La ricetta per la preparazione di quello d’uva è simile a quella del vincotto, tranne che per la conservazione in bottiglie di vetro e non in botti, visto che non deve fermentare. 

Quella del mosto cotto di fichi è semplice e forse un pochino più laboriosa: tagliate i fichi in 4 parti (senza eliminare la pelle), ricopriteli con l’acqua e cuoceteli fino a ridurli in poltiglia (la quantità di prodotto tenderà a dimezzarsi). Quindi versate il composto bollente in un panno dalla trama fitta, che chiuderete dandogli la forma di una sacca da pasticceria. A questo punto dovrete strizzare energicamente il telo in modo da recuperare quanto più liquido possibile che porrete in una pentola in acciaio. Cuocete questo liquido per circa 2 ore mescolando spesso con un mestolo di legno, fino ad ottenere la densità desiderata. Quando vedrete che il liquido si sarà addensato e sarà diventato filante, potrete spegnere il fuoco. Lasciate intiepidire il liquido e versatelo nelle bottiglie di vetro, in cui potrete conservarlo anche per un anno e più, vista l’elevata concentrazione zuccherina. In Puglia sia quello di uva che quello di fichi vengono usati principalmente per condire dolci natalizi. 

L’uso del vin cotto e del mosto cotto pugliese è tipico del tempo natalizio, quando questi due prelibati nettari vanno ad arricchire di profumo e gusto alcuni dolci natalizi, come gli struffoli, alcuni tipi di mostaccioli e le cartellate. Con il mosto cotto viene anche preparato il cosiddetto grano al vincotto, un dolce preparato per il giorno dei morti. Spesso per Natale vengono preparati anche i maritozzi al vincotto (mosto cotto). Al vincotto la Regione Marche ha riconosciuto nel 2002 la denominazione di PAT (prodotto agroalimentare tradizionale italiano).


Note bibliografiche

  • Mensile Il mio vino, Ed. Il mio Castello
  • AA.VV., La terra dell’Ulivo, Adda Editore
  • R. e E. Risolvo, Mange e bbive tarandine, Scorpione Editrice

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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