La carne di cinghiale

Un prodotto ambito dall’uomo da tempo immemore, che fa parte anche della nostra tradizione nazionale: scopriamone proprietà e caratteristiche

La carne di cinghiale

Il cinghiale è un animale selvatico storicamente diffuso in tante regioni italiane. Si tratta della specie Sus scrofa (mentre il maiale è Sus scrofa sottosp. domesticus), della famiglia dei Suidi, vivente allo stato selvatico nelle foreste umide dell’Italia centro – meridionale e della Sardegna. Di cinghiali esistono diversi tipi: europeo (Sus scrofa ferus), asiatico (Sus scrofa vittatus), indiano (Sus scrofa indicus), indocinese (Sus scrofa verrucosus), indonesiano (Sus scrofa barbutus). Il maiale domestico sembra derivi da quello indiano. Il cinghiale della Sardegna, considerato da alcuni studiosi come specie diversa (Sus sarduus) differisce da quello continentale per le minori dimensioni e per il vello più ispido e arricciato.

Il corpo, lungo in media 1,5 m in età adulta (ma si può giungere anche a 1,80 m), è ricoperto totalmente da setole, che, molto lunghe nella parte anteriore del corpo, formano sul collo una criniera; delle quattro dita della zampa, solo le due mediane poggiano sul terreno; la dentatura completa porta le zanne, cioè i canini robusti, sporgenti all’infuori ed incurvati verso l’alto. Un cinghiale può arrivare a pesare anche 100 kg ed essere alto alla spalla (garrese) anche 1 m. Le zanne non sono altro che i canini ipertrofici, presenti solo nei maschi; quelli superiori si chiamano coti (che sta per coltelli) mentre gli inferiori si dicono difese. Sono denti a crescita continua che solo nei maschi raggiungono dimensioni ragguardevoli (15 – 20 cm e più). Quelli inferiori crescendo e incurvandosi strisciano su quelli superiori, affilandoli e rendendoli idonei per l’attacco. 

Il cinghiale vive in qualsiasi tipo di ambiente, sia forestale, che paludoso che seminativo, incolto, pascolo, ecc., purché sia sempre presente una fonte di acqua utile non solo per bere, ma anche per rinfrescarsi in quanto (come i maiali domestici) la pelle non produce melanina e le setole da sole non bastano a proteggere la pelle dai raggi solari. Il cinghiale (così come il maiale domestico) non è da considerare sporco (questo concetto non esiste nel mondo animale): se si rotola nel fango lo fa per abbassare la temperatura corporea, difendersi dai parassiti, per poi puntualmente togliersi il fango di dosso strofinandosi su alberi, arbusti e grossi massi.

Il cinghiale è per lo più gregario (animale sociale), accucciato di giorno nella tana ovattata di foglie e cacciando di notte, guidato dal fine odorato, quanto gli capita (è onnivoro), sia ghiande che frutti che radici, tuberi (non è raro il caso di campi di patate devastati, dato il suo potente olfatto che gli consente di avvertire la presenza di cibo anche sotto il terreno), bacche, funghi, uova, carne, pesce, insetti, carogne di piccoli mammiferi, nuotando quando occorre, e reagendo ferocemente se braccato o disturbato. Se affamato il cinghiale attacca anche animali come cerbiatti, lepri, agnelli, rane, serpenti.

Cacciato per la sua gustosa carne, è stato per questo addomesticato sin dai tempi antichi, originando l’attuale maiale domestico. La domesticazione, che si ritiene sia avvenuta in Oriente, consentì di selezionare soggetti senza zanne o con queste poco sviluppate, meno aggressivi, molto fertili, capaci di adattarsi a mangiare non solo i prodotti del bosco e dei campi ma anche tutti gli altri scarti alimentari umani. L’addomesticamento avvenne proprio perché il maiale è onnivoro e non bisogna destinargli cibi particolari sottraendo terreno ai bisogni umani o per l’allevamento per es. di animali da latte, lana, lavoro (bovini, ovicaprini, equini).

La riproduzione del cinghiale comincia a novembre, con frequenti lotte tra i maschi; dopo 4 mesi di gestazione le femmine danno alla luce fino a nove piccoli (lattonzoli o cinghialetti), che allevano con cura gelosa, allattandoli per almeno tre mesi. Se disturbate o assalite, le mamme difendono i cuccioli attaccando ferocemente sia cani che cavalli che lupi. I verri di cinghiale si accoppiano spesso con le scrofe di maiale domestico allevate nei boschi allo stato brado: ciò che nascerà verrà chiamato porcastro.

L’uomo ha sempre ambito catturare il cinghiale, non solo per fini alimentari (preda dalla nobile carne) ma anche perché attratto dalla sua ferocia e fierezza nel difendersi, tanto da rappresentarlo in tanti stemmi araldici sia tedeschi che Italiani. Il cinghiale compare anche in campo mitologico presso molti popoli come simbolo della morte dell’eroe, o dell’oscurità (si muove molto di notte), o come simbolo di indomito valore fino al sacrificio della vita. Presso alcuni popoli era simbolo della fertilità sia maschile che femminile, presso altri era affiancata a un dio in particolare, o alla fedeltà che porta anche a morire per i figli o il compagno.

Un tempo il cinghiale era fonte importante di alimentazione, perché l’allevamento del maiale domestico non era molto diffuso (i capi allevati erano usati dalla famiglia del contadino e non per il mercato). Solo con l’affermarsi della moderna suinicoltura ha perso tale caratteristica e oggi rappresenta solo un’ambita preda per i cacciatori, o un acquisto “particolare“ non sempre facilmente reperibile presso macellerie e supermercati

Alcune religioni escludono per motivi diversi il consumo della carne suina e quindi anche del cinghiale, mentre in tanti altri questa carne, anche se fibrosa e che sa di selvaggina, è molto apprezzata. Si tratta di una carne con pochi grassi (3,3%), molte proteine (circa il 22%), poco acquosa (intorno al 75%), poco calorica (120 kcal/100g) e non dolciastra. A parte quelli cacciati, la carne di cinghiale che troviamo nella GDO, proviene dai Balcani, dall’Ungheria, Repubblica Ceca e altri Paesi dell’Europa centrale, così come i cavalli e cavallini della maggior parte delle macellerie equine italiane. 

Trattandosi di selvaggina (in quanto animale selvatico da pelo, perché cacciagione è l’animale selvatico da piuma) la carne di cinghiale dovrà essere sottoposta marinatura (almeno una notte in frigo, in bagno di vino rosso corposo, cipolla, carota, sedano, aglio e spezie a scelta) per ridurre al minimo odore e sapore di selvatico (specialmente se si tratta di un maschio cacciato quando era nella stagione della riproduzione (novembre – gennaio). Non si pratica la frollatura perché quella di cinghiale è una carne che diventa velocemente putrida (se non si consuma presto bisogna congelarla) o come in passato trasformarla in salumi, insaccati o meno che siano (quindi sia salami, che salsicce da stagionare, che prosciutti). 

La carne di cinghiale è apprezzata perché presenta le caratteristiche del maiale allevato e del selvatico (non dimentichiamo le caratteristiche dell’antico addomesticamento); si presta particolarmente a cotture in umido (brasato, spezzatino), al sugo, stufata o stracotta, proprio perché fibrosa. Chi dovesse preferire l’arrosto (allo spiedo, al forno, sul grill) dovrà lardellare la carne per renderla più saporita, grassa e meno asciutta. Sono preferiti i tagli della coscia (come per il maiale). I soggetti giovani (6 mesi – 1 anno) hanno una carne tenera ma poco sapida, mentre man mano che si passa a soggetti più adulti (1-2 anni, fino a 5-6) la carne diventa più saporita anche se più fibrosa. molto apprezzati sono i cinghialetti interi da latte o appena svezzati intorno ai tre mesi (eviscerati).

Le ricette a base di cinghiale sono tante: il vino da abbinare può un pochino variare con la preparazione. Si tratterà comunque sempre di vini che devono armonizzarsi con la complessità delle preparazioni, che per il cinghiale sono sempre ricche di profumi e sapori. Saranno quindi vini importanti (o quanto meno vicino a questi), non giovani ma maturi, rossi, secchi, corposi, alcolici, equilibratamente tannici (dato che si tratta spesso di preparazioni succulente, che hanno richiesto aggiunta di liquidi in cottura), morbidi, dai sentori di frutta rossa e matura. Un accorgimento: se nella cottura è necessario aggiungere vino, preferite utilizzaare lo stesso tipo che abbinerete a tavola.

Note bibliografiche
AA.VV., Enciclopedia agraria, Ed. UTET
Tortorelli, Zootecnia speciale, Edagricole
AA.VV., Tecnica dell’abbinamento cibo vino, Ed. AIS
AA.VV., Merceologia degli alimenti, Ed. AIS
Tassinari, Manuale dell’agronomo, Ed. REDA

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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