Riconoscimento speciale a Fabio Campoli!, con la Pergamena Leone D’Oro per Meriti Imprenditorial
Verso la regionalizzazione della gastronomia italiana
In età rinascimentale tutta la letteratura culinaria evidenzia la interregionalità della gastronomia italiana, nel senso che nulla è veramente definibile “all’italiana”: non c’è un modello alimentare uniforme dal nord a sud e da est a ovest ma esistono tanti modi di cucinare come in Italia, modi che però oltre confine fanno pensare subito all’Italia.
Per spiegarci meglio possiamo esemplificare dicendo che se parlo di zuppa di cipolle penso subito alla Francia e se vado in Francia troverò che essa (la zuppa) è fatta allo stesso modo in tutta la nazione: è indice di unità culturale che a sua volta è anche unità politica nel tempo. Infatti la Francia è stata praticamente sempre dei francesi, pochissime sono state le dominazioni straniere.
Ecco perché tanta uniformità (ovviamente sempre con le piccole variazioni locali e regionali) anche nella cucina (si pensi alla baguette e al fegato grasso – foie gras -, sempre uguali in tutta la Francia; esistono diversi tipi di formaggi ma l’elenco è molto simile tra le diverse aree di produzione). In Italia, invece, le diverse e più o meno incisive dominazioni straniere (longobardi, visigoti, unni, svevi, angioini, francesi, spagnoli, austriaci, borboni, arabi in Sicilia, ecc.) hanno determinato moltissime realtà culinarie, tipiche di ogni zona e irripetibili in altre, se non grazie allo scambio di ricette attraverso il mercato urbano dei cibi.
Ciò vuol dire che parlare di mortadella in Italia significa parlare di Bologna, ma all’estero vuol dire parlare di Italia. Lo straniero non sa che in Italia mortadella, prosciutto, pasta alle melanzane, peperoncino piccante, caciocavallo, ecc. sono prodotti che indicano precise origini territoriali. Per lui questi prodotti indicano “ITALIA”. Ecco perché mentre per molte nazioni (Germania, Francia, Inghilterra in modo particolare) è possibile usare il termine alla francese, all’inglese, alla tedesca in quanto effettivamente la loro gastronomia è molto uniforme su tutto il territorio nazionale, per l’Italia ciò non è possibile proprio perché la cucina italiana è la somma di tante cucine regionali e locali.
Questa premessa spiega la presenza nei diversi secoli di ricettari che passano dal tipo comparativo tra le diverse aree regionali d’Italia, a quello decisamente regionale, a quello decisamente municipale (del comune) con una breve comparsa di ricettari internazionalizzanti.
Volendo elencare qualche nome citeremo:
- Teofilo Folengo, nel suo Baldus indica cibi di provenienza abruzzese, napoletana e milanese alla corte del re di Francia;
- Cristoforo Messisbugo, nel suo Banchetti cita soprattutto specialità di ambito padano, ma non mancano riferimenti a cibi alla siciliana, alla ferrarese, alla romagnola, alla romanesca, alla fiorentina, ecc;
- Giovano Battista Rossetti (siamo nel 1258), che nel suo libro di scalcheria cita ricette tipiche della tradizione gastronomica lombardo – emiliana;
- Ortensio Lando (che scrive prima di Scappi, Messisbugo e Rosselli), nel suo “Commentario alle più notabili e mostruose cose d’Italia e di altri luoghi” inventa il viaggio gastronomico che un aramaico (cioè della Palestina) compie nella penisola italiana, decantando o meno cibi e vini. E’ forse il primo esempio di redazione di una guida alle specialità culinarie delle diverse zone. Mentre Scappi e colleghi cercano di portare l’Italia a tavola attraverso le ricette, Lando invita a scoprire le ricette viaggiando per i diversi luoghi, da cui la necessità di una guida scritta. Nonostante l’assenza strana di Roma e scontata del Piemonte, il libro di Lando offre una proposta turistica di grande rilievo, copre una bella fetta d’Italia e dimostra il senso di appartenenza gastronomica ad una identità italiana.
Nel sec. XVII la stagione dei ricettari a carattere nazionale termina e cominciano ad affermarsi quelli regionali. In buona sostanza anche i ricettari già visti, primo fra tutti quello di Scappi, parlano delle realtà gastronomiche delle diverse regioni italiane, ma lo fanno in modo da presentare al lettore una cucina italiana ricca di varianti e per questo motivo non si soffermano particolarmente sulle diverse regioni. E’ come se volessero dire: la cucina italiana ha tante ricette e ve le mostriamo.
Successivamente, invece, i ricettari cominciano a dare particolare rilievo alla realtà regionale, enfatizzandola e ponendosi il fine di far conoscere l’Italia attraverso la cucina di una singola regione. Ciò emerge soprattutto nei trattati di cucina napoletani che per la prima volta conferiscono un preciso volto alla gastronomia del Sud:
- Giovan Battisti Crisci pubblica nel 1634 a Napoli l’opera “La lucerna dei corteggiani”, raccolta di menù per i vari periodi dell’anno. In questo testo vi è un vero e proprio repertorio di prodotti e specialità del centro sud: vi si parla non solo di Napoli e della Campania ma di tutte le regioni meridionali. Per la prima volta viene espressamente citata una cultura gastronomica del Sud, per niente inferiore alle altre. Il testo del Crisci non s’incentra sulla città (contrariamente a Scappi) ma sui piccoli centri e sulle campagne e coste, riscatto dunque della forzosa riunione in contee e baronie in cui al sud erano state sacrificate anche le città. In sostanza se Scappi si era poggiato sulla città ciò era dovuto al fatto che al centro e al nord le città erano effettivamente importanti e ricche di autonomie di vario genere, perciò rappresentative di grandi territori. Nel sud, invece, tutto era accentrato a Napoli, centro nevralgico del regno borbonico, e gli alimenti e i prodotti della terra erano qualificati napoletani anche quando non lo erano affatto in quanto provenienti da altri centri del sud. Si trattava di una sorta di accentramento reale di ogni cosa, anche alimentare, perché solo Napoli, la capitale, potesse brillare agli occhi del mondo . Con Crisci tutto ciò scompare e l’importanza dei luoghi d’origine dei prodotti agricoli e delle ricette torna a vivere.
- Antonio Latini pubblica “Scalco alla moderna, ovvero l’arte di ben disporre i conviti” (Napoli 1692/94), trattato decisamente a sfondo territoriale. In questo trattato di due volumi l’autore descrive sistematicamente, non raggruppandoli in ben definiti gruppi, i diversi tipi di alimenti e prodotti agricoli di tutto il regno di Napoli, che ricordiamo era parte del regno delle Due Sicilie e precisamente delle sue 12 provincie:
- Terra di Lavoro (capitale Napoli. Sede del re delle due Sicilie)
- Principato citra Citra sta per citeriore, cioè “al di qua”. (capitale Salerno. Comprendeva Agropoli, Nocera)
- Principato ultra Ultra sta per ulteriore, cioè “al di la" (capitale Benevento. Comprendeva Avellino)
- Basilicata (capitale Matera. Comprendeva allora anche Laterza, oltre Matera e Potenza)
- Calabria citra (capitale Cosenza)
- Calabria ultra (detta Magna Grecia. Antichi abitanti i Bruzzi, capitale Catanzaro)
- Terra d’Otranto (Terra tra mar Ionio e Adriatico. Detta anche Japigia e Messapia. Capitale Otranto. Città importanti Taranto, Lecce e Brindisi)
- Terra di Bari (anticamente detta Peucetia. Capitale Bari. Zona tra Capitanata e Terra d’Otranto)
- Abruzzo citra (sino al fiume Pescara; capitale Chieti)
- Abruzzo ultra (sino al confine con Ancona; capitale L’Aquila)
- Contado di Molise (parte di Abruzzo con capitale Isernia)
- Capitanata (detta anche Puglia Daunia.Capitale Lucera. Attualmente la zona di Foggia, sino al confine col Molise)
Anche a nord, pur in misura minore, si assiste alla comparsa di ricettari regionali:
- Francesco Vasselli, bolognese, scrive L’Apicio ovvero il Maestro de’ conviti (Apicio era il nome di un famoso gastronomo romano vissuto sotto Augusto e Tiberio, ndr)
- Bartolomeo Stefani (cuoco dei Gonzaga di Mantova) scrive nel 1662 L’arte di ben cucinare et instruire i men periti in questa lodevole professione. In questo libro l’autore afferma che chi può permetterselo deve superare i confini della regione in cui vive ed esplorare in tal modo ciò che i territori circostanti offrono. Egli riconosce, perciò, che se da un lato è giusto enfatizzare e dare risalto alla cucina regionale, è anche vero che esistono distretti gastronomici, cioè aree regionali che fungono da serbatoi di certe derrate quando nelle regioni di cui tratta il ricettario alcuni prodotti non sono presenti (es. Napoli e la Sicilia fornivano agrumi, carciofi, asparagi, fave, ecc. a tutto il Regno nei periodi in cui tali prodotti non si raccoglievano altrove, da cui discende evidente l’interconnessione tra la regione della cui cucina si tratta e le altre in cui si producono gli elementi necessari). In questo testo di Stefani compare per la prima volta una parte dedicata al Piemonte e ai suoi biscottini savoiardi che diventano una moda.
Dalla fine del Seicento a tutta la prima metà del Settecento (quindi dal 1690 al 1750) la letteratura gastronomica in Italia tace: certamente ciò è dovuto al diffondersi in tutta Europa della gastronomia francese e, quindi, ad un atteggiamento timoroso della gastronomia italiana di fronte a quella d’oltralpe, quasi che si temesse di essere fuori moda o non all’altezza della nuova scuola di cucina. Questo determinò senza dubbio un ripiegamento su sé stessa della cucina locale in genere e, di conseguenza, alla rivalutazione e rielaborazione di molte ricette anche in base ai nuovi dettami francesi. Questo ripensare le ricette, rinnovandole con un occhio alla moda e con l’altro ai prodotti propri del territorio di appartenenza, determinerà effetti positivi nel futuro.
Fonti consultate
M. Montanari, La Cucina Italiana, Ed. Laterza
www.saleepepe.it
www.eat-ing.it
www.taccuinigastrosofici.it
Scritto da Luciano Albano
Laureato con lode in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Bari nel 1978, ha svolto servizio come dirigente del servizio miglioramenti fondiari della Regione Puglia presso l’Ispettorato Agrario della città di Taranto. Appassionato di oli e vini, ha conseguito il diploma di sommelier A.I.S. e quello di assaggiatore ufficiale di olio per la sua regione.
Specializzato in Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli presso il C.I.H.E.A.M. di Bari (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Mediterraneennes)" . Iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Taranto. Iscritto nell'Albo dei C.T.U. del Tribunale Civile di Taranto

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