Il Ratafià

Il tempo di raccolta delle ciliegie coincide con quello ideale per preparare anche lo speciale liquore che accomuna diverse regioni italiane

Il Ratafià

Ratafià sembra quasi una parola magica, oppure un’esclamazione, invece è il nome di un liquore (bevanda spiritosa, cioè alcolica almeno con 15°, con sapore dolce, ottenuta per aromatizzazione di alcol o di altre bevande anch’esse spiritose, come per esempio la grappa e altri distillati) simile al rosolio (da ros solis cioè rugiada del sole, liquore preparato con alcol, zucchero e acqua nella stessa proporzione, con in più un'essenza che gli dà nome - alla rosa, alla menta, ecc.) e ottenuto dalla macerazione di amarene o ciliegie in vino o alcol o distillato. 

Le regioni interessate dalla produzione di questo liquore sono essenzialmente il Piemonte, l’Abruzzo e il Lazio e Valle d’Aosta, regioni che hanno inserito il ratafià nell’elenco dei PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) nella categoria “bevande analcoliche, distillati e liquori”, con lievi variazioni del nome. Infatti l’Abruzzo riporta Ratafia / Rattafia, il Lazio Rattafia Ciociara, il Piemonte e la Valle d’Aosta Ratafià. Queste variazioni derivano dall’origine della parola ratafià, che per alcuni (la maggior parte) deriverebbe dall’affermazione latina “Pax rata fiat” cioè la pace è fatta, frase ad uso militare, mentre per altri deriverebbe dal gergo notarile medievale “ut rata fiat” cioè da ratificare, con rifermento ad accordi commerciali o matrimoniali o finanziari o di altro tipo economico, positivamente conclusi. 

In Piemonte sono convinti, invece, che il termine voglia dialettalmente dire “gratta fiato”, penso anche perché citato dal cantautore genovese (quindi vicinissimo ad Adorno Micca, centro piemontese sulle colline in provincia di Biella, rinomato per il ratafià) Paolo Conte nella sua canzone Diavolo rosso, nella quale “Girano le lucciole, Nei cerchi della notte, Questo buio sa di fieno e di lontano, E la canzone forse sa di ratafià”. Anche l’Abruzzo però è forte di citazione, visto che il sangue morlacco (con riferimento alla popolazione balcanica dei Morlacchi) del D’Annunzio altro non è che il ratafià (per alcuni sarebbe riferito al liquore cherry di una famosa casa produttrice, per altri al maraschino. Si tratta comunque di liquori simili al ratafià). Altri correlano il nome ratafià a “tafià”, una specie di rum non invecchiato, ottenuto dalla canna da zucchero, tipico delle Antille. Ultima ipotesi è quella che ritiene il termine ratafià derivato dal crèolo ratafia, a sua volta collegato al francese ratifié, cioè ratificato (ma questo ci riporta come detto a Ut Rata Fiat).

Quindi invece di ratafià potremo trovare scritto ratafìa, ratàfia, rattafia, rattàfia, tafià: io userò sempre “il ratafià” non solo perché termine più noto, ma anche per aspetto grammaticale. Dal punto di vista grammaticale ciascuno dei nomi elencati dovrebbe essere preceduto dall’articolo determinativo “la” (infatti in molte zone si dice la ratafià e simili) trattandosi di nome da considerare femminile per la finale “a”, ma alla pari di quanto accade per molti vini il cui nome finisce per “a” (es. il marsala, il valpolicella) e che sono preceduti dall’articolo “il”, anche per ratafià il vocabolario Treccani stigmatizza la caratteristica di sostantivo maschile e l’uso dell’articolo il, per cui noi useremo sempre “il ratafià” in quanto “il” sottintende “il liquore”.   

Ma torniamo a parlare del nostro liquore ratafià, tipico liquore di frutta che, se preparato con arte, consente di estrarre nel modo migliore gli aromi e i sapori dei frutti e delle altre materie prime, restituendoli il più fedelmente possibile al prodotto finale, in un equilibrio armonioso, con gusto articolato, fine ed unico. Mi piace ricordare ai lettori che i liquori sono nati come bevande medicinali, mentre attualmente, pur essendo notevolmente diminuito il loro consumo, vengono bevuti a fine pasto come digestivi o affiancandoli a dolci particolari. 

Poiché proseguendo si parlerà di ciliegie e simili, voglio ricordare che mentre per il ciliegio dolce si distinguono cultivar tenerine, cv duracine, cv a polpa chiara e cv a polpa scura, per il ciliegio acido si distinguono amarene, marasche e visciole, quest’ultime ritenute ibridi spontanei tra ciliegio dolce e ciliegio acido.

La creazione del ratafià per molti esperti storici sarebbe da attribuire ai monaci cistercensi (piemontesi del paesino di Adorno Micca, i quali già nel 1600 producevano questo liquore ponendo ciliegie nere (compreso nocciòlo, dato il sapore mandorlato che conferiscono grazie al contenuto di amigdalina) nel distillato alcolico di uva o altra frutta (quindi nella grappa che si ottiene dalle vinacce, fermentate o meno che siano, o le acquaviti ottenute da frutta come le pere, le mele, le prugne), lasciandolo esposto al sole per circa 2 mesi, filtrandolo poi in modi variabili (normalmente con teli di stoffa a sottile e a trama evidente), aggiungendovi miele (sostituito poi dallo zucchero, grazie a Napoleone che finanziò le ricerche per ottenerlo dalla barbabietola da zucchero (diversa da quella da coste che noi consumiamo in tanti modi. 

Occorreva anche mescolarlo spesso per un paio di giorni in modo da solubilizzare alla perfezione gli ingredienti, e travasarlo nelle bottiglie lasciandolo a riposare per altri 4-5 mesi prima di consumarlo (tenuto in luogo buio, fresco e asciutto per evitare fermentazioni del tutto indesiderate). Questa è la ricetta che dal Piemonte si è diffusa in diverse regioni italiane, come detto, e oggi il ratafià piemontese è affiancato dal rinomato ratafià abruzzese (prodotto specialmente a Ripa Teatina in provincia di Pescara). 

Il ratafià abruzzese si fonda non sulle ciliegie nere ma sulle amarene denocciolate, ed è caratterizzato dall’aggiunta di miscele di spezie che ogni produttore custodisce gelosamente (accomunate però tutte dalla presenza di vaniglia). Altra caratteristica del ratafià abruzzese è quella di utilizzare nella prima fase di macerazione delle amarene il vino Montepulciano, rosso, corposo, forte, eccellente, mentre nella fase successiva alla filtrazione viene aggiunto alcol puro o distillato di altra frutta, per cui alla fine il ratafià abruzzese risulta essere un vino liquoroso aromatizzato con amarene (e spezie). Anche il contenuto alcolico è variabile con la zona di produzione e il produttore, oscillando tra i 18° di quello abruzzese (vino fortificato) e i 28 – 30 degli altri (perché fatti coi alcol puro o distillati), mentre il tenore in zucchero si aggira intorno al 20%. 

Considerato il prodotto di partenza (ciliegie o amarene o visciole) e il procedimento di preparazione il ratafià è un liquore a parer mio romantico, discreto, elegante, non volgare, non invasivo, stupendo per chiacchierare piacevolmente, meditare, ascoltare musica e attività simili. Personalmente eviterei di berlo a fine pasto e non lo abbinerei ai dolci perché non si riuscirebbe ad avvertire veramente il suo profumo superlativo e il suo sapore originale. Nel ratafià fatto bene queste caratteristiche si desumono dal suo splendido colore rosso rubino tanto carico, impenetrabile dallo sguardo, senza trasparenza, tale da ricordare il sangue, dal suo gusto dolce ma non stucchevole, amarognolo al fondo, con retrogusto di mandorla, dal suo profumo di amarena, mandorla, spezie, frutti di bosco, violetta. 

Il ratafià si consuma giovane e non invecchiato perché non regalerebbe più i profumi descritti, e il gusto dolce sarebbe prevalente sul resto, alterando l’armonioso equilibrio del prodotto. Per il servizio del ratafià si usano i classici bicchierini da rosolio o da liquore dolce, mentre la temperatura giusta dovrebbe essere di circa 12° C (freddi anche i bicchierini se possibile) per evitare che una temperatura superiore evidenzi troppo la dolcezza con rischio di stucchevolezza, mentre una T inferiore evidenzi troppo in bocca i tannini e le altre sostanze dure (come gli acidi organici comunque presenti).

Concludo segnalando che il ratafià francese non è ciò che abbiamo sin qui descritto, ma un distillato di vino simile al brandy, mentre il ratafià del Canton Ticino (la parte più meridionale della Svizzera, di lingua e cultura italiana, con centri famosi come Bellinzona - la capitale - e Lugano; il suo nome deriva dal fiume Ticino che l’attraversa) e quello della Catalogna (nord ovest della Spagna, ai piedi dei Pirenei, con capitale Barcellona) sono liquori ottenuti ponendo a macerare noci verdi in grappa o altri distillati locali.

Note bibliografiche

  • AA.VV., Liquori di erbe fatti in casa, Giunti Editore
  • E. Falconi, Gli alcolici nel mondo dalla A alla Z, Ed. San Marco
  • A. Bencivelli, Liquoristi in erba, Ed. Frate Indovino
  • AA.VV., Liquori e grappe aromatiche, Ed. Antichi Sapori
     

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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