Dessert oramai internazionale legato alla tradizione del “ceppo di Natale”: scopriamolo tra storia e consigli di preparazione
Quando ebbe origine la cucina di ravioli, tortelli, cappelletti e tortellini in Italia? Scopriamolo tra storia e curiosità
Quante volte volendo fare festa a tavola si pensa subito a tortellini, ravioli e altre paste ripiene tipiche di ciascuna regione, riuscendo a organizzare un momento di allegra convivialità sia dedicandosi con passione alla loro preparazione, sia volendo acquistandoli pronti dal laboratorio di pasta fresca preferito? Certamente, e in perfetta buona fede, non immaginiamo quanta storia si nasconde dietro alle paste fresche farcite.
Vi è da dire allora, per istruirci un pochino sull’argomento, che in origine la torta (o pasticcio, pastello o coppo) non indicava una pasta ripiena ma un recipiente di pasta chiuso, in cui un ripieno viene cotto nel forno o su mattoni refrattari o su della brace. Solo successivamente il termine finì per indicare non più il contenitore ma il contenuto. La diffusione in tutta Europa di questa preparazione vide l’avvio a partire dal XIII sec. (Medioevo), propagandosi nell’ambito di tutti i ceti sociali.
Delle torte o paste ripiene si tratta nel famoso testo Liber de Coquina (anonimo, datato 1285, scritto in latino e ambientato nella corte angioina di Napoli), con un vero tripudio, ma notizie di torte (ovviamente parliamo di torte salate) si hanno già presso i monaci camaldolesi (ordine di monaci ed eremiti benedettini, fondato da San Romualdo di Ravenna, nella valle di Camaldoli dell’Appennino Toscano) nel 1100.
Il successo delle torte fu, certamente, dovuto al fatto che l’idea era facile da trasformare in piatti golosi: bastava mettere nel coppo quello che piaceva o che si aveva a disposizione (carne, pesce, formaggi, uova, verdure, ecc.), porlo a cuocere, per ottenere un cibo gustoso e nutriente, spesso con l’impiego delle rimanenze, massima espressione di economia domestica del nulla deve essere buttato. Fu questa semplicità a rappresentare la vera novità rispetto al passato, visto che nell’antichità non erano conosciute o lo erano scarsamente; anche gli antichi romani conoscevano le torte, le cita Marco Gavio Apicio (autore del De re coquinaria) ma non ne fecero mai grande uso; ancor prima torte a forma di torre sembra fossero preparate dai popoli della Mesopotamia.
La diffusione delle torte determinò anche delle innovazioni di tipo imprenditoriale, diciamo pure delle nuove attività: era infatti necessario avere un forno per cuocere queste paste ripiene e per questo sorsero botteghe di fornai, che cuocevano per gli altri e che preparavano anche in proprio cibi da portare via già pronti, rosticcieri, tavernieri, cuochi e tante altre figure della ristorazione. A lanciarsi nell’impresa furono coraggiosi imprenditori di estrazione non borghese o nobiliare ma popolare, i quali applicarono alla produzione delle torte tutta la loro fantasia e visione economica, trasmettendo ciò alle classi più agiate, le quali potendosi permettere l’uso di componenti costosi elevarono, senza dubbio, la qualità delle torte e il loro prestigio a tavola.
Ciò dimostra quanto affermano tanti studiosi di storia dell’alimentazione: la cucina non è un’invenzione delle classi dominanti ma un bisogno delle stesse soddisfatto con l’arte dei ceti popolari (all’epoca, più che oggi, poveri). Nel tempo accadrà però anche il contrario (senza dubbio in misura minore), per cui molte ricette nate per i ricchi e i borghesi entreranno poi nella cucina dei ceti poveri, con gli opportuni adattamenti per ridurne il costo (es. eliminare le spezie sostituendole con le erbe aromatiche, dette perciò le spezie dei poveri; sostituendo i legumi alla carne; usando vin cotto anziché miele, ecc.).
Le paste ripiene, di cui le torte sono il simbolo più famoso, furono tra le maggiori innovazioni gastronomiche del Medioevo, espressione della genialità della cucina povera del riciclaggio dei residui delle cotture varie e, nello stesso tempo, espressione alta del desiderio di novità nell’alimentazione anche da parte dei meno abbienti; rappresentarono, inoltre, un interscambio reciproco di ricette tra ceti poveri e ricchi. Infatti, se è tra i ceti poveri che, probabilmente, nascono le torte, è certamente nelle classi agiate che raggiungono il loro apice gustativo.
Una delle torte più antiche sembra essere quella definita parmesana, termine che non deriverebbe dalla città di Parma ma dal termine parma che indicava una forma a torre (chiaro riferimento a quelle mesopotamiche di cui ho accennato): tra le paste ripiene era quella più ricca di componenti golosi e prelibati, come pollo fritto, cipolle, spezie, salsicce, formaggio, prosciutto, ecc., stratificati anche fino a 7-8 volte, fino a esaurimento scorte, alla fine chiuso.
La preparazione rifletteva le differenze economiche sociali, non solo nel tipo di componenti ma anche di cottura (al forno era dei ricchi e dei cittadini, che avevano i forni in città, sul fuoco o brace per gli altri). Ma quali erano i componenti normalmente usati per le paste ripiene, torte in primis? Senza dubbio verdure (il nome “torta” deriverebbe da una trasformazione di torcere: i vegetali venivano strizzati, torti, prima di formare gli strati), potendo permetterselo anche carne (pitagorica era la torta tutta vegetale, gallica l’altra).
Le tipologie di base delle torte erano tre: pasticcio, crostata e torta propriamente detta. Pasticcio era un manufatto di pasta dura, non necessariamente da mangiare, riempito di grani di vario genere (frumento, orzo, riso, farro, miglio, ecc.) che in esso cuocevano. Crostate e torte erano, invece, fatte con strati di sfoglia friabile costituita da una base, chiusa attorno da un tortiglione e coperta con una sfoglia doppia, in uso specialmente a Napoli).
La vera differenza tra crostate e torte era nel ripieno: pezzi interi (di carne, pesci, formaggi, verdura, frutta) nelle prime, ripieni impastati (omogenizzati) nelle seconde. Nel napoletano le crostate si chiamavano coppi (con riferimento come detto all’involucro stesso), mentre le torte (aperte) erano dette pizze. Ma di torte ne esistevano davvero tante, a seconda del luogo di produzione, ognuna con delle caratteristiche correlate a prodotti tipici e benessere della popolazione: alla lombarda, alla bolognese, alla genovese, proprio per indicare la genialità degli italiani nel trasformare la fame in spunto per preparare vere golosità, anche se comunque povere: si racconta che a Parma in tempo di carestia furono preparate delle torte vuote, pur di avere nel piatto una torta e non sentirsi psicologicamente tristi).
È proprio accanto alla torta nel Medioevo si diffonde il tortello, sintesi della cultura della pasta fresca e della torta al contempo. Infatti il tortello sin dall’origine veniva preparato come una “torta piccolina”, nella quale un ripieno (chiamato raviolo) veniva avvolto da una sfoglia di pasta tipo lasagna: i tortelli si cuocevano lessandoli in acqua bollente o brodo, oppure friggendoli e cospargendoli di miele o vin cotto (lo zuccherò di barbabietola arriverà con Napoleone). In origine, quindi, il tortello era l’involucro e il raviolo il ripieno. Questo ripieno si poteva usare anche da solo, come una polpettina, da lessare o friggere. Perciò quello che oggi chiamiamo raviolo non coincide con l’origine della parola, perché oggi il termine indica l’insieme della sfoglia e del ripieno, mentre in origine indicava solo il ripieno del tortello.
Secondo Pellegrino Artusi (1820 – 1911, famoso per il suo libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene) ravioli sarebbero soltanto i quelli fatti con farina, ricotta, parmigiano e uova, poi lessati e conditi con formaggio e sugo di carne, o serviti per contorno, mentre quelli ripieni di carne non si dovrebbero chiamare ravioli ma tortelli o tortellini.
Note bibliografiche
- M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Ed. Laterza
- Capetti – Montanari, La cucina italiana, Ed. Laterza
- Paste fresche e gnocchi, Slow Food Ed. Giunti
- S. Sabban, La pasta: storia e cultura di un cibo universale, Ed. Laterza
intteressantissimo