Quando le trasformazioni della materia destano stupore anche in cucina!
Sulla scelta (o sulla necessità?) sempre più frequente di utilizzare cibi precotti pronti all’uso nelle cucine dei ristoranti attuali
Accomodarsi al ristorante e ordinare uno stinco di maiale immaginando già il succulento piacere della sua carne cedevole esaltata dall’irrinunciabile gusto della salsa che l’avvolge, frutto di una cottura lenta, ricca di “ingredienti segreti” che conferiscono un sapore unico e personale alla ricetta a seconda di chi la prepara.
Poi veder arrivare il cameriere, sorridere emozionati nel momento in cui posa sta posando il piatto in tavola…e in un batter d’occhio rimanere delusi dalla vista fino all’assaggio, riconoscendo (speriamo ancora facilmente) che ciò che si ha davanti è un bello stinco precotto, di quelli che si rigenerano immergendoli nella propria confezione di alluminio in acqua bollente (li troviamo comunemente nei supermercati), poi rosolato e servito con una salsa “fredda” cotta a parte (se non comprata pronta anch’essa) di vario tipo.
È ciò che accade sempre più di frequente nei nostri ristoranti, che si parli di “trattorie”, di quelli che strizzano l’occhio al gourmet a costi (ormai relativamente) contenuti, o di coloro che - sempre più numerosi - iniziano a offrire menu dai connotati più global, passando dalla pasta agli hamburger fino alla pizza e alle insalatone-piatto unico.
Perchè quello dello stinco è solo un esempio fra tanti, e per scoprirlo basterebbe farsi un giro tra scaffali, frigoriferi e congelatori dei cash and carry food & beverage, che in questi ultimissimi anni vanno sempre più riempiendosi di prodotti alimentari pronti solo da scongelare e da rigenerare al microonde prima del servizio, che facilitano la vita dei cuochi ma hanno anche diversi risvolti negativi.
Infatti, un ristorante che acquista tanti di questi prodotti ha inevitabilmente un food cost più elevato: c’è una certa differenza tra acquistare una materia prima pura e semplice ed acquistarla già nettata, condita, cotta e confezionata. Cibi industriali (per altro decisamente ultra-processati) nel piatto, perdita dell’originalità dell’esperienza e aumento dello scontrino si riflettono così sul cliente, suscitando non solo delusione momentanea, ma anche e soprattutto sfiducia e incertezza, tanto verso il ristorante dove ha appena consumato la cena (dove difficilmente rientrerà) quanto verso il prossimo dove sceglierà di accomodarsi (sotto i consigli di “attendibilissimi” articoli, video e recensioni online).
Ma veniamo al lato più inatteso della questione, che è più profonda di quanto si possa pensare: scegliere di servire cibi precotti solo “finalizzati” dal cuoco in cucina oggi per alcuni imprenditori della ristorazione è diventata una vera necessità. Le motivazioni sono molteplici: anzitutto, agevolano molto il lavoro e i tempi di servizio nelle strutture che servono grandi numeri (mense, franchising, grandi hotel ecc.). La scelta del loro utilizzo può inoltre dipendere molto anche dagli spazi (oggi generalmente molto più ridotti di un tempo), dalle attrezzature disponibili e dal layout (sia back che front) di un locale di ristorazione.
E non in ultimo, può dipendere dal reale grado di specializzazione di coloro che compongono la brigata di cucina. In un momento storico in cui il livello di professionalità gastronomica (intesa come vera e propria capacità di destreggiarsi in cucina a partire da puri ingredienti di base che non siano già disossati, sfilettati, preaffettati) tende più verso il basso che verso l’alto, i cibi pronti precotti – dalle ribs al petto di pollo alla griglia cotto e surgelato, dagli gnocchi di patate alle basi per pinsa – grazie alla facilità d’uso arrivano a rappresentare persino un positivo spazio di sicurezza per quel ristoratore che possiede una brigata di cucina decisamente poco esperta. Il locale reggerà meglio senza rischiare di chiudere… ma a quale prezzo per la sua reputazione?
Oggi - ve lo assicuriamo - capita spesso che chi è dentro le cucine sia sempre più di frequente un autodidatta in formazione sul campo che un cuoco d’esperienza “come una volta”, dall’approccio più tecnico al proprio mestiere e dal “chiodo fisso” della soddisfazione del cliente attraverso l’orgogliosa espressione della propria arte (a qualsiasi livello), che fino a poco più di un decennio fa avrebbe rifiutato, nonostante la stanchezza e i sacrifici, l’utilizzo di qualsivoglia semilavorato industriale nella propria cucina.
E ancora, per “giustificare” l’utilizzo di cibi precotti nelle cucine dei ristoranti attuali, alcuni cuochi e ristoratori tirano in ballo il tema dell’antispreco. Acquistare prodotti pronti, già porzionati, confezionati sottovuoto e in alcuni casi buoni da conservare anche a temperatura ambiente senza occupare spazio nelle celle frigorifere, è senza dubbio un’espediente buono per buttare meno all’interno delle cucine di un ristorante. Ma di questo passo si rischia davvero di far perdere il senso dell'esperienza ristorativa, sminuendola a servizio volto "solo a sfamare" più che ad emozionare, scegliendo alimenti persino peggiori di quelli che si sceglierebbero autonomamente per cucinarsi la cena fra le mura di casa propria.
Per concludere, l’appello è come di consueto al ritorno alla cucina autentica, che anche per questi motivi rischiamo di cancellare in tempi più brevi del previsto. Se un ristorante necessita davvero di utilizzare cibi industriali precotti, ciò che conta è farlo “con la testa” e senza mai eccedere, progettando anzitutto un menu sostenibile in fatto di tempi, sprechi e contenimento dei costi senza intaccare l’autenticità, la qualità e l’originalità e senza disilludere le attese dell’esperienza di assaporare i nostri piatti regionali di cucina italiana, patrimonio unico che a ciascun cuoco spetta preservare.
Non rischiamo attraverso scelte “eccessivamente di comodo” di perderne le tracce e di interrompere anche l’arte di tramandarle, nonché di minare il buon nome della ristorazione italiana dando vita ad una clientela vittima di non provare più alcuna particolare emozione a tavola. Facciamo in modo che la distinzione tra "catena di franchising" e "trattoria di famiglia" sia ancora degna di nota. Perché se i sapori che si sceglie di servire nel piatto sono tutti uguali, attenzione: molto presto un ristorante varrà come l’altro.
Photo made in AI
Scritto da Sara Albano
Laureata in Scienze Gastronomiche , raggiunta la maggiore età sceglie di seguire il cuore trasferendosi a Parma (dopo aver frequentato il liceo linguistico internazionale), conseguendo in seguito alla laurea magistrale un master in Marketing e Management per l’Enogastronomia a Roma e frequentando infine il percorso per pasticceri professionisti presso la Boscolo Etoile Academy a Tuscania. Dopo questa esperienza ha subito inizio il suo lavoro all’interno della variegata realtà di Campoli Azioni Gastronomiche Srl, , dove riesce ad esprimere la propria passione per il mondo dell'enogastronomia e della cultura alimentare in diversi modi, occupandosi di project management in ambito di marketing e comunicazione e consulenza per il food service a 360°, oltre ad essere il braccio destro di Fabio Campoli e parte del team editoriale della scuola di cucina online Club Academy e della rivista mensile Facile Con Gusto.
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