Una salsa a freddo preparata con pomodoro Graziella e condimento all’aglio e prezzemolo, perfetta per condire un primo piatto dal profumo di mare
Che la si chiami schiscetta, gavetta o portavivande, un oggetto indispensabile celebrato anche da Italo Calvino nel suo “Marcovaldo”
È un oggetto familiare il portavivande, che accompagna il pasto fuori casa e che tutti abbiamo adoperato almeno una volta (per molti è un’abitudine quotidiana). A Milano, dove è stato prodotto per la prima volta in Italia, questo utile oggetto è chiamato “schiscia” o “schiscetta”, un termine che deriva da “schisciare” cioè schiacciare, perché nel richiuderlo con il coperchio occorre pressare il contenuto.
La schiscetta milanese è il lunch box internazionale che trova corrispondenze con il jubako, il bento ed anche nel dabba indiano rappresentato da contenitori in acciaio che s’impilano l’uno sull’altro. In Italia nelle varie regioni la schiscetta assume altre denominazioni, alcune delle quali sono la “gluppa” nelle Marche, il “barachin” a Torino, la “scutedd” in Puglia, la “gamella“ a Genova, la “tecietta” in Veneto.
In origine la “gavetta” o “gamella” (o ancora “marmitta”) era la scodella in pesante ferro battuto che adoperavano i soldati e i marinai per consumare il proprio rancio. Negli anni ’30 si passò dal ferro al più leggero alluminio eliminando le saldature. La chiusura ermetica della “schiscia” la troviamo nel modello denominato “La 2000”, prodotto dalla Caini Brevetti S.p.A. nel 1952.
Una leggenda metropolitana racconta che l’esigenza di un contenitore a chiusura ermetica sia nata da un incidente capitato ad un impiegato di Milano che prendeva il tram ogni giorno portando con sé il pranzo; un giorno, a causa di una brusca frenata del tram, il contenuto del suo portavivande si riversò su un altro sfortunato passeggero. Il successo della chiusura ermetica fece della schiscetta un’icona del lavoro in fabbrica o in ufficio. In quegli anni infatti non esisteva ancora la mensa aziendale, né c’erano i distributori automatici e i take-away del giorno d’oggi.
Il portavivande è chiamato pietanziera dallo scrittore Italo Calvino che intitola proprio “La pietanziera” uno dei suoi 20 racconti contenuti nella raccolta Marcovaldo ovvero Le stagioni in città e inserita nelle serie di storie dell’autunno. Il libro fu pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1963. Il suo protagonista Marcovaldo è un eroe proletario che vive gli anni del boom economico e in questo come in altri racconti l’autore sottolinea il divario sociale tra coloro che vivono nel lusso e coloro che invece stentano a raggiungere la fine del mese coi loro guadagni.
Calvino è stato giudicato dai critici come lo scrittore che guarda a distanza le vicende umane per poterle valutare meglio; questa è una caratteristica comune a tutta la sua produzione molteplice e variegata, anche a quella autobiografica legata alla sua esperienza partigiana. Marcovaldo è un impiegato con una famiglia numerosa che porta il suo pranzo a lavoro, racchiuso nella pietanziera. Durante la pausa pranzo, svitando il coperchio che funge da piatto, lui già pregusta il cibo riposto con amorevole cura dalla moglie Domitilla e spesso non ne conosce il contenuto.
Seduto su una panchina tra le foglie cadenti e rubando un raggio di sole autunnale e vicino alla fontana che gli darà da bere, Marcovaldo guarda la gente per strada. Uno di questi giorni però, dopo aver mangiato per tre sere consecutive rape e salsiccia la pietanziera contiene lo stesso cibo e lui proprio non riesce a mandarlo giù. Un bambino da una finestra che si affaccia sulla strada lo chiama e gli chiede cosa stia mangiando; lui è chiuso nella sua stanza in castigo perché non vuole mangiare fritto di cervella e quando sente che Marcovaldo ha rape e salsiccia per pranzo accetta di scambiare il pasto con lui.
Così Marcovaldo attraverso la finestra gli porge la pietanziera e il bambino il suo pregiato piatto e la forchetta in argento e i due consumano con gusto l’uno affacciato al davanzale e l’altro in strada sulla panchina. Ma ecco che giunge la governante del bimbo indignata che urla “Al ladro! Al ladro!” accusando Marcovaldo di aver rubato la posata d’argento. Lui le restituisce piatto e forchetta, la finestra è sbattuta, il bambino piange e la pietanziera finisce sul marciapiede. Marcovaldo la raccoglie: è ammaccata e il coperchio non si avvita più bene, ripone tutto in tasca e se ne va.
Scritto da Elena Stante
Laureata in Matematica nel 1981 presso l’Università degli Studi di Bari, dal 1987 insegna Matematica e Fisica presso il Liceo Ginnasio Aristosseno di Taranto .
Ha partecipato ai progetti ESPB, LabTec, IMoFi con il CIRD di Udine e a vari concorsi nazionali e collabora, con la nomina di Vice Direttore, alla rivista online Euclide, giornale di matematica per i giovani.

0 Commenti