Dal significato e le declinazioni del suo nome, fino alle sue incredibili proprietà per il benessere ed il palato
Dalle antiche origini, il sottile pane carasau sardo conosciuto anche come "carta da musica" ha tanta storia da raccontare
Terra speciale quella di Ichnusa, ovvero l’”orma del piede“ sita al centro del mar Mediterraneo che oggi chiamiamo Sardegna. I primi popoli che abitavano l’isola erano pastori e cacciatori; lo testimoniano le caverne, le prime abitazioni e poi i nuraghi risalenti all’Età del Ferro e del Bronzo. Tra i reperti archeologici ritrovati nell’isola ci sono delle piccole macine in pietra e molti sono i testi che citano l’uso del pane nei rituali di offerta agli dei.
La produzione del pane nasce nel II millennio a.C.; nei nuraghi in particolare sono state rinvenute delle statuette in bronzo che raffigurano le offerte alle divinità di focacce tonde; in epoca successiva i dischi di pane venivano anche decorati con fregi artistici. Durante la seconda guerra Punica, i Romani si preoccuparono di far costruire nuovi silos in Sardegna perché quelli esistenti non erano sufficienti a contenere il grano prodotto; l’isola fu infatti per molto tempo considerata "il granaio di Roma” .Dalla preistoria a Roma e poi attraverso tante diverse dominazioni fino a giungere all’autonomia della regione, ogni epoca ha lasciato la sua impronta in Sardegna, ma le antiche usanze sono state gelosamente conservate e tramandate da una generazione all’altra.
Vogliamo qui concentrarci sul pane, che per tutti i popoli è espressione del culto del grano, quello che si lanciava a pioggia sugli sposi per augurare abbondanza e fecondità e si pensava potesse curare i mal di gola, l’affanno, le malattie della pelle. Per curare i dolori reumatici si doveva avvolgere il sofferente tra lenzuola di lino bianche e coperte pesanti per poi ricoprirlo con pane caldo appena sfornato così che attraverso il sudore il dolore fosse eliminato. Si credeva che il grano proteggesse perfino dal malocchio e dei particolari tipi di pane venivano offerti durante le veglie funebri; per le festività di vario genere il pane veniva modellato in figure geometriche o di fantasia tutte diverse, di animali oppure di oggetti.
Dalla macinatura del grano si ottengono la crusca, la semola di grano duro e la farina di grano tenero .In Sardegna dalla semola si ottengono i famosi gnocchetti chiamati malloreddus, le seadas, dolci tipici della Barbagia, e la fregola, composta da grumi di semola di grano essiccati che si consumano in sostituzione della pasta. E poi c'è il pane tipico della Sardegna, il carasau, noto anche con il nome di “carta da musica”, appellativo che deriva dal caratteristico suono che producono le sue sfoglie sottili e croccanti alla rottura.
Nella tradizione antica ogni famiglia faceva da sé il pane carasau in quantità necessaria per una settimana; ogni pane è rotondo e sottile come un foglio di carta, e può durare in realtà anche un mese. Il processo di panificazione, che in sardo si chiama “sa hotta” o “sa cotta”, era riservato alle donne a cominciare dal processo di pulitura delle spighe, il lavaggio dei chicchi , la loro asciugatura in cesti intrecciati .
Dai racconti delle donne sarde più anziane si delinea oggi un quadro sociale di stampo matriarcale in cui le donne non si sentivano affatto assoggettate agli uomini: avevano invece un ruolo decisionale importante in seno alla famiglia, e sin da giovani venivano istruite per poter conservare e tramandare a loro volta le tradizioni e le regole di comportamento delle comunità di appartenenza .
Gli uomini, contadini o pastori, erano quasi sempre fuori casa alle prese con il loro lavoro duro; in particolare i pastori partivano per far svernare le greggi spostandosi da un estremo all’altro della regione .Lontani da casa per lunghi periodi, alloggiavano in capanne con la base di pietra e il tetto di rami intrecciati (i primi nuraghi) e dormivano su giacigli di fortuna sotto le stelle. Il cibo che questi solitari pastori portavano con sé doveva conservarsi a lungo e resistere agli sbalzi di temperatura: il pane carasau, consistente in dischi asciutti di pane croccante impilati l'uno sull'altro, si conservava a lungo nelle bisacce e si prestava ottimamente anche come piatto su cui disporre altro cibo, che spesso in Sardegna era il formaggio.
La più vetusta comunità di pastori in tutta l’Europa si trova in Sardegna, in particolare in Barbagia e ai piedi del Gennargentu. Anticamente i pastori delle regioni interne dell’isola non mangiavano pesce, mentre la carne era riservata alle festività solenni e la domenica e quindi il pane era il protagonista quotidiano al fianco di formaggi freschi o stagionati di pecora o capra, di salsicce disidratate ottenute a partire da carne di maiale magra e lardo, insaporite con finocchietto ed erbe aromatiche locali .Nella loro dieta non mancavano le zuppe e i legumi, nonché il buon vino da bere.
In alcune aree della Sardegna il pane schiacciato come un foglio sottile è fatto con farina d’orzo e si chiama pillonca, in altre località non è rotondo ed ha dimensioni e spessore differenti; in qualche caso è inoltre senza lievito. Il tipico pane carasau è fatto con acqua, semola di grano duro, sale e lievito. Quest’ultimo tradizionalmente era lievito madre; veniva sciolto in acqua tiepida e mescolato alla farina la sera prima della lavorazione; si prelevava dopo la lievitazione un pezzo grande quanto una pagnottella che sarebbe stato aggiunto all’impasto successivo. Quando il volume dell’impasto era cresciuto a sufficienza lo si divideva in piccoli pezzi che, lasciati lievitare ancora per tre ore sotto calde coperte di lana, dovevano poi essere spianati in una sfoglia molto sottile .
Le sfoglie dovevano poi restare a riposare in drappi di lana rettangolari lunghi anche dieci metri. Le donne che dovevano provvedere alla spianatura dei dischi di pasta si radunavano di solito alle due della notte del venerdì e ciascun pezzo da spianare passava sul tagliere dalle mani delle più giovani fino a quelle delle anziane e queste operazioni erano accompagnate dalle chiacchiere tipiche delle donne di paese. Gli uomini accendevano il fuoco nel forno a legna e poi si dileguavano per lasciare libero il campo alle loro mogli.
Le sfoglie di pane sottili al calore del forno si gonfiano; l’aria separa i due strati che poi abilmente con un coltello vengono separati, cercando di non produrre troppe briciole. Le immancabili briciole erano però usate al posto della pasta, mescolate alle verdure che la terra offriva: cardi, fave, bietole, finocchio selvatico. Oggi le briciole si consumano anche a colazione nel caffellatte (un pò come accade a Genova con la celebre focaccia locale).
Le donne incaricate della panificazione erano tre: una doveva infornare i dischi, l’altra sfornarli e la terza dividerli e impilarli coperti con panni di lino bianchi. Ma non finisce qui, perchè l'ultima fase fondamentale era quella della tostatura che serviva a disidratare i dischi rendendoli croccanti e di lunga conservazione. Quando si adoperavano forni pubblici, ogni famiglia aveva un timbro di riferimento sul proprio pane da infornare.
Tante sono le ricette che si possono preparare con il pane carasau, dolci o salate, tramandate dalla tradizione orale o rivisitate con creatività. A dare profumo alle pietanze della cucina sarda e anche al pane provvede il particolare aroma dello zafferano di cui nell’isola esistono estese coltivazioni. La ricetta più semplice col carasau? Il pane guttiau (sgocciolato), che altronon è che del pane carasau spennellato di olio salato e scaldato in forno; questo diventa il pani cun casu (pane con formaggio) se si aggiunge una fetta di pecorino sardo passata alla piastra e del finocchietto selvatico. Tra i primi piatti molto popolare è il pane frattàu, ottenuto con fogli di carasau ammorbiditi nel brodo e posti a strati l’uno sull’altro conditi con sugo e pecorino, il piatto è completato con uova in camicia. Il carasau è inoltre il fondo più tradizionale delle zuppe sarde, tipica quella di carciofi, “canciofa a cassola” ,che sono una coltivazione assai diffusa ; ma anche il fondo per piatti di carne di agnello, di capra o di cinghiale o ancora di pesce vario o anguilla.
Il pane carasau, come tanti altri nella nostra meravigliosa penisola, racconta infinite storie, e anche noi ne facciamo parte ogni volta che mettiamo le mani in pasta!
Note bibliografiche
Antonella Serrenti - Susanna Trossero, “Il pane carasau. Storie e ricette di un’antica tradizione isolana”, Editore Graphe.it 2019
Photo via Pixabay
Scritto da Elena Stante
Laureata in Matematica nel 1981 presso l’Università degli Studi di Bari, dal 1987 insegna Matematica e Fisica presso il Liceo Ginnasio Aristosseno di Taranto .
Ha partecipato ai progetti ESPB, LabTec, IMoFi con il CIRD di Udine e a vari concorsi nazionali e collabora, con la nomina di Vice Direttore, alla rivista online Euclide, giornale di matematica per i giovani.

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