Da nuove tecniche per l’analisi sensoriale, a proprietà funzionali e gusti dei consumatori
Dalla Polonia alla Francia fino alla Campania, curiosiamo nella storia del babà - babka tra viaggi ed evoluzioni di forma e di gusto
“La scoperta di un nuovo piatto è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella”: questo sosteneva Jean Anthelme Brillat-Savarin, avvocato, deputato dell’Assemblea Costituente, in seguito presidente del Tribunale Civile del dipartimento di Ain, ma soprattutto figura indimenticata della storia della gastronomia francese ed internazionale, grazie alle naturali doti di buongustaio e alle sue annotazioni sul “saper mangiare” ritrovate nella sua celebre opera intitolata Fisiologia del gusto (1825).
Uomo di spirito ed epicureo particolarmente mite, dai pensieri brillanti che lo posero subito al centro dell’attenzione pubblica ai suoi tempi (in cui frequentava assiduamente la crème della società), ispirò anche diversi artigiani del cibo, che donarono il suo cognome a diverse creazioni golose, dal formaggio a pasta molle prodotto in Borgogna dal 1930 fino a quella morbida, antica dolcezza denominata savarin. La storia racconta che nacque nel 1845 a Parigi dalle mani dei fratelli Arthur e Auguste Julien (in realtà, pare da quelle del minore dei due) che furono in grado di rielaborare sapientemente quella che in Francia veniva chiamata pâte à baba.
Da qui sorge spontanea la domanda: da dove trae origine invece il vero e proprio babà? Sebbene sia considerato un dolce della tradizione napoletana (seppur in verità figuri oggi tra le ricette italiane più amate e preparate sia in altre regioni che all’estero), occorre viaggiare fino in Polonia per riscoprire la sua storia.
Stanislao Leszcyski, re di questa nazione fino al 1736, è passato alla storia anche per essere stato grande gourmet, goloso soprattutto di dolci. Detronizzato ed esiliato in Lorena, scelse di rivisitare il dolce polacco chiamato babka, simile all’alsaziano Kugelhopf che gli sembrava troppo asciutto, immergendolo nel tokai e nello sciroppo. Leszcyski modificò la preparazione del babka prevedendo anche tre fasi di lievitazione e l’aggiunta di ingredienti quali uva passa, canditi e zafferano.
Nei ricettari del famoso re dei cuochi Carême si legge che il vero babka polacco prevedeva l’uso di farina di segale e vino ungherese. Per il nuovo babka il re aveva scelto il nome Alì Babà, il suo personaggio preferito de “Le Mille e una notte“. Dalla Polonia il babà raggiunse la Francia attraverso la figlia di Leszcyski, che aveva sposato il re di Francia Luigi XV portando con sè il pasticciere di corte Nicolas Stoher; costui conosceva la ricetta del dolce Alì Babà che riscosse grande successo alla corte di Nancy. dove veniva servito affiancato ad una salsa al madeira.
Nell’800 si diffuse la moda del rum giamaicano. e la ricetta del babà si vide così nuovamente rivisitata; furono anche eliminati i canditi, l’uva passa e lo zafferano. Stoher aveva non solo perfezionato la preparazione del dolce, ma anche aperto in rue Montorgueil a Parigi la pasticceria punto di riferimento per degustare il suo autentico babà al rum. il suo nome fu dunque abbreviato e la sua forma assunse quella di un cappello. Da allora furono tanti i pasticcieri francesi che ispirandosi alla pâte à baba idearono il fribourg. il gorenflot e, per ritornare a quanto menzionato in apertura, anche il savarin, che i fratelli Julien modificarono nella consistenza più spugnosa, forgiandolo in forma di corona con l’uso di uno specifico stampo e proponendo una miscela segreta di liquori per bagnare il dolce (pare si tratti di un blend di kirsch, maraschino e liquore all’anice).
La ricetta del babà al rum e la sua forma a fungo è datata 1835; i pasticcieri napoletani ne hanno modificato il nome nel gergo locale, da babà a babbà. Ma come mai proprio i napoletani? Ebbene. durante la dominazione borbonica i signori di Napoli prendevano a servizio i monsù, chef francesi che fecero conoscere l’haute cousine ai maestri cuochi napoletani. Questi provarono ad allungare il tempo di lievitazione rendendo l’impasto del babà più soffice e definirono la sua forma. Nel 1836, come si legge nel manuale di cucina italiana di Agnoletti, il babà era diventato un tipico dolce napoletano che nelle caffetterie era affiancato al rinomato caffè.
Quella del babà è una vera arte perché richiede attenzioni particolari nelle fasi di lievitazione e nella scelta dei giusti ingredienti e delle giuste dosi; è un simbolo di morbidezza e bontà tanto che ha portato a coniare l’attributo “si nu babbà“ per identificare le persone belle e di carattere gradevole. Nel tempo poi, alla ricetta tradizionale sono state aggiunte alcune varianti che riguardano soprattutto la sua farcitura ma che non tutti apprezzano. Nel suo più classico servizio, il babà può essere arricchito da panna montata o crema pasticciera, ma può anche essere cosparso da cioccolato o affiancato da una macedonia di frutta fresca. Oltre al rum sono molto diffuse (e altrettanto deliziose) le versioni bagnate al limoncello. Un segreto? Bagnate i babà freddi avendo cura che la bagna sia invece calda, a 40°C circa, per poi strizzarli delicatamente e riporli a riposare e scolare su una griglia con una teglia sottostante.
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