La nobiltà degli "scarti" del maiale #2

Preparazioni italiane povere ad alto contenuto di storia e di gusto: approfondiamo insieme coppa di testa, zuzzu siciliano e ‘ncatarata lucana

La nobiltà degli "scarti" del maiale #2

L'Italia è la patria dei buoni salumi: protagoniste sono le carni di maiale, animale domestico del quale non si butta davvero via niente. Persino le sue parti apparentemente "di scarto" - di terza categoria - hanno ispirato nel corso dei secoli i maestri della salumeria nazionale nell'ingegnarsi per il loro migliore utilizzo. Nascono così tante tipicità "povere ma nobili", dal sapore all'intento del non spreco, da riscoprire e riportare in tavola regione per regione. In questo secondo appuntamento sul tema approfondiremo coppa di testa, zuzzu siciliano e ‘ncatarata lucana. 

Quando si parla di coppa di testa molti non sanno di cosa si tratta: infatti è un insaccato povero, ormai difficile da trovare (salvo alcuni luoghi come il Lazio, dove invece è ancora largamente consumata), con la conseguente minore produzione sia industriale che artigianale. Resta però un prodotto di salumeria molto particolare, per aspetto, profumo e sapore. La coppa di testa è riconosciuta PAT in molte regioni italiane, che la preparavano storicamente sotto nomi diversi: coppa di testa in Emilia Romagna, Marche, Umbria, Abruzzo, capofreddo in Molise e Toscana (qui anche soppressata o soppresata toscana o capaccia), testa in cassetta in Piemonte e Sardegna.

Questo salume artigianale, tanto popolare un tempo tra i ceti poveri, trova la sua origine in quel di Macerata - luogo di arte norcina - nell’800, ma la sua diffusione nelle altre regioni è stata rapida in quanto ovunque del maiale non si butta niente; si tratta inoltre di un salume semplice da preparare, anche se i tempi sono lenti e lunghi. In passato la testa di coppa era esclusivamente artigianale, quindi con lavoro solo manuale, mentre oggi nell’industria alimentare il processo è in parte meccanizzato, e il prodotto finale contiene conservanti.

Nella preparazione della coppa di testa si parte, per l’appunto, dalla testa del maiale, opportunamente privata di setole, peli, imperfezioni epidermiche e cervello (questo si potrà usare previamente bollito, per tante ricette, ricche però di moltissimo colesterolo!), la quale sarà posta a bollire in un pentolone di acciaio o di rame stagnato per almeno 4 ore, insieme ad altri scarti della lavorazione norcina “nobile” (pancetta, prosciutto crudo e cotto, capocollo, coppa piacentina, culatello, ecc.), quindi parliamo di lingua, orecchie, ritagli di cotenna, per cui vi sarà molto collagene che si trasformerà in gustosa gelatina. 

Una volta cotta la testa viene spolpata, la carne insieme al resto viene tagliata grossolanamente, arricchita di sale, aglio, pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano, scorze di limone e arancia, pistacchi, erbe aromatiche varie, a seconda delle ricette proprie dell’artigiano o dell’impresa non artigianale. L’impasto, disomogeneo, ottenuto viene posto a sgocciolare, quindi insaccato in vescica di bovino o stomaco suino nella lavorazione artigianale (una volta anche in sacchetti di tela), in sacca di cellulosa nella lavorazione industriale. 

Si lascia il tutto a raffreddare sottopressione per alcune ore, in forme di legno o acciaio (da cui il nome testa in cassetta); segue un breve riposo  (un giorno, anche se non tutti lo praticano) in luogo fresco e asciutto e ventilato, fatto poi riposare almeno per una notte in frigorifero a 4°C, in modo che si rassodi bene e non si sviluppino reazioni biochimiche dannose (prima del frigo si poneva in cantina). Il consumo del prodotto artigianale deve avvenire al massimo in 2 mesi dalla data di produzione, anche in presenza di frigo, per l’assenza di conservanti, tranne sale e pepe. Diverso il discorso per il tipo non artigianale protetto dai conservanti autorizzati dalle norme comunitarie. Il sottovuoto risolve però ogni problema.

La fetta di coppa di testa si presenta di colore rosa grigiastro, con striature biancastre derivate dalle cartilagini di alcuni componenti e del grasso, grana grossa, il suo profumo è di spezie e agrumi, il suo sapore deciso e sapido, la sua consistenza morbida e tenera grazie anche alla gelatina derivata dal collagene presente nei componenti. A tavola: la fetta deve essere sottile per esprimere al meglio le sue caratteristiche gustolfattive nei diversi modi di consumare la coppa di testa: con polenta calda che la scioglie un pochino, con tigella/piadina calde, bruschette, crescentine, a cubetti come antipasto sfizioso, o nei risotti, nelle paste, sulla pizza, nei panini con pepe macinato al momento, con parmigiano in scaglie e rucola (un po’ di limone o di aceto balsamico ridurrano la sapidità spesso notevole), con verdure stagionali cotte in vari modi. 

Molto simile alla preparazione della coppa di testa è quella della PAT siciliana chiamata u' suzzu o u' zuzzu (cioè grasso, saporito, untuoso), tipico delle provincie orientali della regione (Catania innanzitutto, Messina, Siracusa e Ragusa), nata - si dice - al tempo del Regno delle Due Sicilie (dal 1816 – Congresso di Vienna – al 1861 – Unità d’Italia - regnanti i Borboni, giunti però già nel 1734 al posto degli Asburgo al tempo del Regno di Napoli), quando la povertà la faceva da padrona in base a un sistema economico di tipo feudale. 

U zuzzu è in pratica gelatina di maiale, per la quale si usano le stesse parti richiamate per la coppa di testa, cioè testa decerebrata e pulita dalle setole, cotenna ripulita per bene, coda, orecchie, muso, zampe, lingua, tutte spezzettate e messe a bollire per almeno 2 ore in un pentolone con acqua salata, insieme a tanto alloro, pepe in grani, chiodi di garofano. Quando pronto, si ricava la carne dalla testa, si fanno a pezzetti tutti gli ingredienti e li si pone a ribollire nello stesso brodo per almeno mezz’ora, schiumando spesso.

Al termine si estrae la parte solida dal brodo e la si pone in contenitori singoli (ciotole), mentre il brodo viene messo nuovamente su fuoco a bollire (alcuni aggiungono aceto e limone, filtrando un paio di volte in modo da avere un brodo finale molto chiaro). Il brodo finito si versa nelle ciotole, aggiungendo pepe macinato, prezzemolo e, volendo, anche peperoncino, oltre a un filo di olio evo. Le ciotole si lasceranno a raffreddare per almeno 5 ore, in modo da far solidificare la gelatina ottenuta dal collagene dei pezzi usati. U zuzzu si consuma freddo in quanto gelatina, sia in casa che per strada (street food tipico del catanese), nelle macellerie (chianchi a Catania), nelle salumerie. In pratica è una sorta di stuzzichino piacevole prima del vero pasto.  

Concludiamo questo secondo contenuto dedicato alla nobiltà degli "scarti" del maiale citando una preparazione storica della Basilicata: la ‘ncatarata o ‘ncadarata, riconosciuta PAT ed inclusa nell’Arca del Gusto di Slow Food, che non può essere definita salume in quanto si tratta di parti di scarto del maiale poste sotto sale (il maiale era macellato dai contadini nei mesi di dicembre, gennaio, febbraio, sia per il raggiungimento del peso desiderato, sia per il freddo stagionale che consentiva di conservare ancor meglio il prodotto).

Si comprende che la preparazione è decisamente povera, tipica di quando il sale e l’affumicatura erano indispensabili per conservare sia la carne trasformata in salumi, che le parti di scarto del maiale da consumare durante l’inverno. Ovviamente le parti migliori del maiale servivano per preparare ottimi salumi (prosciutto, pancetta, lardo, capocollo, salami e salsicce da stagionare), oltre che per essere consumate fresche, appena macellate, mentre il quinto quarto era destinato appunto alla conservazione per uso invernale, in genere per insaporire piatti semplici e miseri come fave, cicoria, erbe spontanee, cavoli, patate, onnipresenti sulla tavola povera della gente di campagna. 

La preparazione della ‘ncatarata (diffusa anche nelle vicine Puglia e Calabria, regioni molto povere al pari della Basilicata) richiama quella delle alici o altro pesce sotto sale, praticato dai pescatori, anch’essi poveri come i contadini, per non buttare via il pescato avanzato e consumarlo nella stagione fredda, quando la pesca era sospesa e si curavano reti e barche. Questo maiale sotto sale prevedeva (parliamo al passato perché praticamente quasi nessuno la prepara più) l’impiego di orecchie, muso, zampe, coda, cotiche, parti che venivano lavate, depilate a mano e alla fiamma, spezzettate/schiacciate grossolanamente e poste a strati alterni con sale grosso in vasi di terracotta.

Nella stratificazione si distribuivano anche odori tali da migliorare sapore e gusto, oltre che consentire una migliore conservazione basata essenzialmente sulla capacità del sale di impedire la putrefazione delle proteine e lo sviluppo di colonie batteriche e muffe. Si aggiungevano perciò alloro, semi secchi di finocchietto selvatico, peperone secco dolce e altri come aglio schiacciato, pepe frantumato grosso e peperoncino piccante sbriciolato, ecc. secondo l’uso del preparatore.

Sulla bocca del contenitore di terracotta, detto ‘ncantaru da cui il nome (derivato dal greco kàntaros che sta per vaso in terracotta con manici laterali) si poneva un disco di diametro appena inferiore a quello di questa, in modo da aderire al preparato sottostante, sul quale si poneva una pietra abbastanza pesante per schiacciare il contenuto, eliminando quanta più aria possibile, con fuoriuscita di liquidi dalle parti usate, liquido che alla fine faceva da salamoia, conservando e insaporendo il tutto. Questo si poneva a stagionare in locale fresco, per una decina di giorni. Si conservava fino a sei mesi, e quando in inverno si prelevavano porzioni di ‘ncantarata si aveva cura di rinnovare in parte il sale grosso per continuare a conservare bene il prodotto. 

In cucina i pezzi prelevati dal contenitore venivano lavati e bolliti, dopo di che si utilizzavano per insaporire sughi, zuppe, verdure come cavoli vari, cicorie ed altre spontanee, (verze, fagioli, ceci, ecc). Si tratta, quindi, di un insaporitore artigianale e tradizionale, usato soprattutto in base al proprio estro.  

Note bibliografiche
Fatati-Eletto-Mininni-Bagnato, Lucania – Cucina e cultura, Pacini Editore
M.Ragusa, Cucina siciliana di popoli e signori, Ed. Momenti-Ribera
L.Grazie-C.Zambonelli  Salumi fai da te, Edagricole
D. Paolini, Cibovagando tra i salumi d'Italia.
Le pillole del gastronauta in un viaggio alla scoperta della qualità, Edagricole
Salumi d’Italia, Ed. Slow Food
Tecnologia dei salumi, Edagricole

Photo by Sara Albano

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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