L’eros gastronomico

"Fare il cuoco non richiede meno professionalità di uno che fa il filosofo”: parola di Tullio Gregory e del suo libro che recensiamo per voi

L’eros gastronomico

Tullio Gregory, L'Eros Gastronomico. Elogio dell'identitaria cucina tradizionale, contro l'anonima cucina creativa, Editori Laterza

Si ricreda subito chi dovesse pensare che un intellettuale e filosofo come Tullio Gregory si occupi dei temi della gastronomia e dei comportamenti alimentari in modo accademico e freddo, perché, al contrario, la sua penna è molto spesso intinta nei toni di una polemica rigorosa, molto più stuzzicante della prosa di tanti sedicenti critici gastronomici, come il suo lavoro e il suo pensiero. Gregory non è stato unicamente uno studioso della gastronomia, ma un vero gourmet che accompagnava gli studi con una buona frequentazione della tavola. Non a caso il titolo cita Eros, ovvero la passione che l'autore ha nutrito per questi argomenti, partecipandovi con tutti i sensi. 

Gregory fu uno dei miei professori negli anni universitari, e negli anni Ottanta ebbi anche modo di incontrarlo nuovamente con grande piacere: da allora l'ho sempre seguito nei suoi interventi sul Domenicale del Sole 24 Ore e non solo, in cui la cura filologica del dettaglio spesso si univa a un pensare che non faceva sconti, con cui trattava ed esplorava, da par suo, i temi del cibo e della cucina, quasi sempre solo banalizzati da una critica gastronomica commercializzata, oscillante tra iperboli lessicali e pochezza delle argomentazioni. Quando lo conobbi di persona, per me che mi apprestavo a cominciare un percorso nel mondo del cibo e del vino, che mi davo da fare in cucina e mi appassionavo ad alcune letture di cultura gastronomica, fu un'illuminazione. Cominciavo ad avere certezza che il cibo, per usare le parole dell'autore, è una esperienza che non può e non deve esaurirsi solo nel bisogno nutrizionale, ma “si colloca in un cosmo intellettuale e fantastico ove si incontrano uomini e dei, sacro e profano, morti e viventi, caricando il cibo di valori che trascendono la sua natura materiale".

I testi raccolti in L'eros Gastronomico sono talmente ricchi di spunti e di scoperte che disegnano una mappa di temi che potrebbero (e dovrebbero) essere ulteriormente approfonditi.  La grande erudizione e il metodo nel ragionamento permettono all'autore di esplorare percorsi di pensiero in cui a volte il discorso sul gusto e quello filosofico si intrecciano e prendono strade comuni che ci aprono prospettive inimmaginabili. Quasi un'altalena tra rigorose ed erudite argomentazioni e occasioni di quella che posso definire di 'critica militante', anche se son certo che questo termine non lo avrebbe gradito ed apprezzato. 

In questa rubrica abbiamo ragionato spesso sul binomio tradizione/innovazione e, pur criticando le chiacchiere dell'edonismo enogastronomico, le epifanie patinate degli show televisivi, mai siamo stati, per farla breve, 'identitari' in cucina e ancor più in generale. Ma qui non avrebbe senso aprire una riflessione generale su questi temi e, per restare saldi e scrupolosi nel ragionamento sulla gastronomia, solo ricordo e rimando al piccolo e denso saggio Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro di Massimo Montanari, il più importante studioso di storia e teoria della cucina italiana, di cui ho avuto già modo di scrivere. Afferma Montanari: "Quando si mangia e quando si parla di cibo , gli equivoci e le mistificazioni sono all'ordine del giorno". Più in generale devo però ricordare che il concetto di identità gastronomica, soprattutto in questo momento storico, è ad alto rischio di abuso, e va maneggiato anche in cucina con prudenza e consapevolezza. 

Faccio questa riflessione pur condividendo la critica di Gregory "all'apologia del minimalismo, dell'esercizio calligrafico, della fascinazione del piatto vuoto, del valore simbolico del frammento". Condivido la critica all'esaltazione della cosiddetta cucina fusion, ma non credo che lo stato della cucina contemporanea sia così disastroso e interpretabile solo rispetto a queste tendenze. Credo piuttosto che, in questo stato confusionale generale di tutti gli ambiti culturali, anche la cucina soffra della sovraesposizione di falsi mentori e interpreti, che certo sono la maggioranza pompata dalla spettacolarizzazione dei social. Ma al contempo esistono concretamente cuochi legati saldamente ad una grande competenza professionale, alla conoscenza dei prodotti e animati da una grande voglia di ricerca che fa onore proprio alla grande tradizione della nostra gastronomia, per lo meno quella “moderna” che parte dal XV secolo con Scappi, il Platina, Messisbuco. Sino ad arrivare ai giorni nostri, citando cuochi come Nino Bergese che, negli anni '50 del secolo scorso, nel suo ristorante La Santa di Genova, offre le sue specialità di haute cuisine francese in una versione migliorata e mitigata dalla tradizione ed è il primo ad ottenere la stella Michelin; Gualtiero Marchesi che, assieme alle innovazioni realizzate a Via Bonvesin a Milano, scrive un trattato fondamentale sulla cucina regionale e che ci teneva ad essere chiamato cuoco, rifuggendo la definizione di chef; Massimo Bottura che sulla tradizione del territorio e dei suoi prodotti fonda anche quelle che possiamo considerare le sue esplorazioni più ardite; Fabio Campoli, estimatore sommo di Antoine Carême e che, al contempo, fa un grande lavoro di informazione e formazione per migliorare la cucina della tradizione. 

In questo modo, anche la critica gastronomica non è tutta così compromessa e cito a conferma, il recente lavoro del  giovane Lorenzo Sandano, I 100 piatti da assaggiare almeno una volta nella vita, in cui  brillano i piatti della memoria, degli affetti e della tradizione. Credo altresì che sia necessario fare una distinzione giusta ed opportuna tra la buona ed onesta cucina quotidiana, che una volta avremmo definito casalinga, e quella altamente specializzata e di ricerca dei cuochi. Due livelli che si basano su fondamenta comuni e, ancora una volta, in Italia non ce la passiamo per niente male.

Spesso i prodotti della cosiddetta cultura popolare aiutano a capire anche fenomeni complessi come quelli di cui stiamo trattando, così mi permetto di citare I nuovi mostri il film collettivo a episodi italiano del 1977, diretto da Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola e, in particolare, l'episodio Hostaria! che si svolge appunto In un'umile e rustica osteria romana, il cameriere e il cuoco litigano forsennatamente in cucina per questioni di gelosia omosessuale, mentre  nel locale un gruppo di clienti, rappresentati come inequivocabili esponenti di una borghesia benestante e colta, elogia la bontà e la genuinità di un locale come quello, di un 'Hostaria' con un tocco di sciccheria dato dall'H iniziale come appunto si usava. Soprattutto elogiano ed aspettano il piatto che tutti hanno ordinato, lo Zuppone alla Porcara. La macchina da presa nelle scene della cucina mostra in modo iperrealistico che l'aggettivo 'porcaro' non fa riferimento ad una pietanza rustica dei contadini, ma al modo immondo di quanto finisce dentro il pentolone. Non stupiscono i gridolini di giubilo dei commensali nel mangiarlo, perché confermano il valore simbolico e l'autorappresentazione che del cibo si danno gli individui e le culture. Ma uso questa lunga digressione, invitando i lettori vedere l'episodio che si trova sul web, per riflettere che, se è giusto criticare i falsi stilemi della cucina creativa, lo è altrettanto quello di avvalorare l'idea di una cucina della tradizione che egualmente può essere contraffatta dalle osterie con l'H.

Muovo queste osservazioni non in opposizione, ma in omaggio allo scrupolo intellettuale di Tullio Gregory filosofo, perché mi spinge a ragionare. Soprattutto, condivido l'invito a “ritrovare il senso di una civiltà della cucina, che è un momento non marginale della nostra storia culturale e civile". Dunque, quella di Gregory, a cui muovo delle osservazioni, non è una presa di posizione passatista e ancor meno conformista, perché spesso colgono il segno i suoi strali contro i cuochi stellati, contro la cucina creativa che a suo dire è introdotta dalla nouvelle cuisine. Eppure, quel movimento non fu come lo descrivono i media, ma avviò una giusta pratica di alleggerimento dagli eccessi di una cucina bolsa e ostentativa, recuperando proprio alcuni canoni della tradizione dei territori, alleggerendo le salse, diminuendo le cotture e tanto altro. E che dire trovare per la prima volta l'espressione “nouvelle cuisine” che dà il titolo ad un testo di Menon (La nouvelle cuisine, Paris, Joseph Saugrain, 1742)? Anche allora l'intento era quello di innovare, semplificare, curare le cotture e la qualità come sarà appunto nel movimento culinario nato in Francia nel 1972 per merito dei critici Henri Gault e Christian Millau.  

La Nouvelle Cuisine nasce in Francia nella prima metà degli anni Settanta promossa e diffusa dal gruppo editoriale Gault & Millau proprio ad opera di giovani chef con dei principi molto innovativi che guadagneranno rapidamente consensi. Questi principi sono stati condensati in dieci regole: criticano le salse e le marinature; riducono la durata delle cotture; promuovono i prodotti freschi; abbandonano le vecchie tecnologie conserviere; alleggeriscono i menu e i piatti; inaugurano una creatività firmata che si manifesta in un nuovo stile di presentazione dei piatti (Bénedict Beaugé, Le dix commandements selon Gault et Millau, 1999). Questi principi decretano la fine del modello creato settanta anni prima da Escoffier e diffuso in tutto il mondo. I principali esponenti sono cuochi con un curriculum classico come Guérrard, i fratelli Troisgros, Paul Bocuse Cuisiniers à Roanne. Cambiano non solo le voci del menù ma le caratteristiche dei cuochi, la gestione dei ristoranti, la cultura dei clienti, l'attenzione dei giornalisti. Purtroppo, come quasi sempre spesso accade, accanto agli appassionati nasce tutto un pubblico di detrattori. Critiche che attribuiscono al movimento atteggiamenti che nella realtà sono estranei. Ancor oggi, dopo alcuni decenni dall'inizio e dalla conclusione della N.C. si continuano a muoverle critiche su vicende contemporanee che proprio non la riguardano. Non ci meravigliamo di questi atteggiamenti che riguardano la gastronomia, quando pensiamo che stesso destino riguarda anche la scienza e tanti ambiti della cultura in generale.

Però, non si tratta solo di retorica, iperboli e mode, ma di percorsi che giungono a compimento con esiti che possiamo anche non condividere, ma che sono nella forza delle evoluzioni che in tutti i campi hanno le tecniche e i contenuti.  Certo, l'autore ha ragione contro le perversioni  di questi percorsi, come quando si oppone allo scempio linguistico ribadendo che sarebbe opportuno un lessico rigoroso, evitando il falso gioco dello stupire ad ogni costo: "All'arbitraria creatività linguistica che oggi imperversa in tanti locali alla moda, sarebbe opportuno contrapporre un lessico rigoroso, specchio di altrettanto rigorose ricette, posto che la cucina non deve stupire o provocare 'l'effetto choc' , ma suscitare piacere evocando modelli dai sapori noti precisi".  

Trattandosi di un grande intellettuale non è azzardato collocare questi suoi ragionamenti sul cibo e dintorni nelle caratteristiche complessive del suo pensiero in cui, già a partire dalla tesi di laurea con Eugenio Garin, si manifesta l'attenzione alla centralità del testo. Modi e forme che influenzano con coerenza pensiero e comportamento quotidiano, il suo esercizio intellettuale nella esperienza con il cibo. Ma si badi che le pagine più belle del suo lavoro sono quelle in cui con minuzia e rigore ricostruisce storie e aspetti della tavola. Penso alla critica senza sconti ai suoi scritti più legati alla sua esperienza di goloso colto ed esigente che al ristorante rivendica il meglio ed è criticamente corrosivo nei confronti della sciatteria e dell'improvvisazione. Riporto un aneddoto, che mi è stato riferito, di quando una volta ordinò un vino importante che, a suo dire, gli fu servito con una temperatura inadatta. Ebbene, di fronte alle granitiche certezze del sommelier, estrasse dal taschino un termometro da vino e dimostrò che aveva ragione. Soprattutto non possiamo non apprezzare  la critica puntuale e corrosiva nel capitolo Dall'insipida cucina televisiva a quella indigesta dello smartphone , in cui smaschera e smonta le sciocchezze del momento, ad opera di personaggi che vengono chiamati ad intervenire in trasmissioni in tv e sul web che non conoscono la differenza tra gli esiti di un frullatore rispetto a quelli di un setaccio. 

Scrive, in un suo bel ricordo, alla fine del volume, Michele Ciliberto: "se uno riducesse questa passione per la cucina a un fatto puramente gastronomico non capirebbe il complesso significato che essa ha avuto per Gregory e la molteplicità di fili esistenziali, culturali e storici che sfociavano in essa. Per lui la cucina era una realtà concreta, solida, il contrario delle astrattezze, specie quelle dei filosofi, significava la terra da cui sorge. Ma era anche altro: una metafora di qualcosa di più profondo che coinvolgeva gli strati originari della sua personalità come uomo e come studioso. Il reciproco riconoscimento, generato dall'amicizia, era uno degli elementi fondamentali della passione per la cucina. Se l'amicizia è il sentimento principale che lega gli uomini fra loro, la cucina è la via attraverso cui questo può manifestarsi e perciò va celebrata e praticata con gusto e piacere. Essa scioglie l'uomo dalla solitudine e lo proietta in una dimensione più amabile e più ricca, la stessa che ci dona la cultura quando la pratichiamo con amore e in modo gratuito, senza aspettarci ricompense o riconoscimenti. Da questo punto di vista, la cucina come la cultura in generale, costituiva per Gregory un'esperienza di libertà".

Scritto da Sergio Bonetti

Ha insegnato all'Università, si è occupato di piccole imprese e, negli ultimi anni, soprattutto di quelle del  settore enogastronomico, per le quali ha promosso eventi legati alla cultura del territorio. Le sue grandi passioni sono i libri, il cibo, il vino…e le serie tv.  

Ama viaggiare e per lui ogni tappa diventa occasione per visitare i mercati alimentari e scoprire nuovi prodotti, tecniche e tradizioni.

E’ inoltre appassionato di ricerca e dello studio di testi in ambito culinario, per contrastarne la spettacolarizzazione e i luoghi comuni.

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