Le Apocalissi del Cibo

Passate e presenti, esteriori ed interiori (ed anche culturali): viaggio attraverso la fame, le carestie di cibo e i suoi significati nella storia

Le Apocalissi del Cibo

Nell'Apocalisse o Rivelazione di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, rimosso dalla coscienza di credenti e non credenti, la catastrofe che riguarda la fine dei tempi è rappresentata con la potenza iconica e terrorifica che si è manifestata per secoli nelle forme esplicite dell'arte figurativa e di cui la xilografia Albrecht Dürer, databile intorno al 1496 e qui riportata, è uno splendido esempio. La convinzione della fine dei tempi era così radicata nell'immaginario collettivo da essere uno dei temi artistici più diffusi e utilizzato dal potere della chiesa in grado di offrire la speranza della vita eterna, ultraterrena nella Civitas Dei.  

Nelle rappresentazioni di tanti secoli e di tanti artisti i primi tre cavalieri simboleggiavano la Conquista militare (cavallo bianco, cavaliere con arco), Violenza e Stragi (cavallo rosso, cavaliere con spada) e Carestia (cavallo nero, cavaliere con bilancia). I terrifici cavalieri sono stati solo parzialmente rimossi, ma mai completamente esorcizzati dalla storia e dall'immaginario dell'umanità, come ci ricorda quanto stiamo vivendo in questi ultimi anni tra pandemia, guerra e disastri ambientali. 

In merito alla Carestia, che qui ci interessa analizzare anche se essa si accompagna quasi sempre con le altre due calamità della guerra e della pandemia, qualcuno potrebbe rassicurarsi, pensando al nostro mondo stracarico di cibo, con un'offerta di merci alimentari che soddisfano tutti i bisogni, tutti i gusti, tutte le fantasie per cui sembra essere diventata di massa l'utopia cinquecentesca del Gargantua di François Rabelais di una mensa infinita e di una crapula a dismisura. Ma se facciamo i conti con la storia e riflettiamo sul tema utopia/distopia, per cui l'eden dell'utopia si rovescia molto spesso nel suo contrario, dobbiamo fare ricorso alla prudenza di giudizio, guardando oltre il nostro orizzonte temporale e geografico.

Il direttore del WFP (World Food Program) ci avverte che entro la fine di quest’anno “potremmo trovarci di fronte a carestie di inusitate proporzioni”. Se allarghiamo lo sguardo nel tempo e nello spazio, fuori dal mondo delle apparenze lucido e plastificato delle retoriche dei media, tanto seguito dagli chef in poltrona, vediamo che il cavaliere scheletrico, con il suo seguito di lutti e di rovine, non è mai scomparso. Limitandoci alla storia contemporanea, attraverso alcuni degli esempi che stiamo per fare, emerge non solo l'attualità delle carestie, ma anche come esse siano il risultato congiunto di cause naturali amplificate da politiche predatorie e irresponsabili del potere politico. 

Nel 1845 in Irlanda, paese che si era troppo affidato alla monocultura della patata si scatenò una carestia dovuta principalmente al parassita della peronospera che aggredì le coltivazioni. La miope politica economica britannica peggiorò la situazione e la carestia durò ben otto anni. Oltre due milioni di persone emigrarono e, con un milione e mezzo di morti, nel 1853 la popolazione si era ridotta del 25%.

La carestia russa del 1921 (5 milioni di morti): dopo milioni di vittime nella Prima Guerra Mondiale e dopo la rivoluzione violenta, i contadini venivano depredati dei loro prodotti. Perciò molti dismisero le coltivazioni e mangiarono anche i semi per sfamarsi. 

La carestia ucraina del 1932-1933 (10 milioni di morti). In Occidente non si seppe nulla di questa carestia, l'Homolodor, fino agli anni ’90. La causa principale fu la politica di collettivizzazione di Josef Stalin, con la quale ampie zone di terra vennero convertite in fattorie collettive, gestite da contadini. Per farlo, Stalin prese con la forza fattorie, colture e bestiame. 

La carestia del Bengala del 1943 (7 milioni di morti): fu provocata da una serie di eventi naturali catastrofici, come gli tsunami e soprattutto il fatto che un fungo sconosciuto distrusse il 90% di tutte le colture di riso nella regione. 

La carestia vietnamita del 1944-1945 (2 milioni di morti): durante l'occupazione militare giapponese l’agricoltura fu indirizzata verso l’approvvigionamento di materiali di guerra come la gomma, a scapito delle derrate alimentari. Quando arrivò anche la siccità, seguita da inondazioni bibliche, il paese si trovò alla fame. 

La carestia nordcoreana 1994-1998 (3 milioni di morti): e cause furono scelte sbagliate da parte della dittatura e forti inondazioni. Come se non bastasse, il despota decise di mettere al primo posto i militari, anche al di sopra dei bisogni della gente comune, soprattutto per quanto riguarda le razioni alimentari.

La grande carestia cinese 1958-1962 (43 milioni di morti). Anche questa carestia, come quella ucraina del 1932-1933, fu causata da leader politici. Nel 1958 il possesso di terreni privati fu messo fuorilegge e i campi divennero una proprietà comune nel tentativo di aumentare la produzione agricola. Inoltre, milioni di lavoratori agricoli furono strappati ai loro campi e inviati alle fabbriche metallurgiche. 

Le carestie contemporanee
Oggi, se guardiamo poco oltre i confini del nostro paese, spingendoci nella fascia subsahariana dell'Africa martoriata dalla siccità, se guardiamo alla Siria devastata dalla guerra, all'Afganistan dei Talebani, vediamo che queste popolazioni soffrono la fame e la piaga della denutrizione, che pagano a caro prezzo soprattutto i bambini. Dobbiamo temere che  lo stesso possa accadere nell' Ucraina aggredita da una guerra di invasione.

Venerdì 11 marzo il quotidiano La Repubblica titolava in prima pagina L'arma della fame riferita all'assedio di Kiev. Oltre al dramma della guerra e dei profughi, l' ”operazione militare speciale”, come con cinismo la definisce il presidente russo Vladimir Putin, costituisce anche una grave minaccia alle scorte di alcune delle principali materie prime alimentari del mondo. I terreni ricchi di grano dell'Ucraina orientale, di cui l'Unione Europea è una delle principali importatrici, sono adesso sotto lo scacco delle truppe russe. Il conflitto in corso sta già arrivando sulle nostre tavole, in un menù che ha in serbo una ricetta ostile di geopolitica.

Sulle derrate alimentari già si fa sentire l'aumento dei prezzi dell'energia, e la FAO ha manifestato le sue preoccupazioni per la possibile carenza di fertilizzanti azotati che per il 30 per cento sono di produzione russa. Sempre venerdì 11 marzo di quest'anno il presidente di Confagricoltura ha affermato, a Radio Sole 24 Ore, che già è in atto una grave crisi nel settore delle derrate agricole e della loro distribuzione, per un aumento dei costi che già è aumentato del 30%. Il presidente francese Macron paventa alla stampa internazionale "tra 12 mesi sarà carestia". I Cavalieri continuano a imperversare nel loro triplice luttuoso concatenarsi di cause ed effetti e ad influenzare in negativo alcuni grandi fenomeni della storia dell'umanità, causando, ad esempio, le migrazioni e gli esodi di milioni e milioni di persone che cercano di fuggire dai loro mortali flagelli. Mentre scrivo il numero dei rifugiati ucraini in Polonia e in Romania è già di tre milioni di unità.

Ma tralasciamo la guerra. Se leggiamo il rapporto Codice rosso per l'umanità dell'ONU l'impatto devastante che il riscaldamento globale potrà avere nei cicli della natura e quindi soprattutto nell'agricoltura, possiamo capire come il Cavaliere della Carestia cavalchi, in un futuro non troppo lontano, non solo in certe aree del mondo. Noi, giustamente, ci preoccupiamo della secca del Po, il nostro più importante corso d'acqua, che sta mettendo a repentaglio le produzioni agricole della Valle padana, ma i pericoli sono di ben più vasta portata. Il succitato rapporto delle Nazioni Unite, e altri di assoluta attendibilità, analizzano il rischio dell'impoverimento dei grandi ghiacciai e dei bacini idrici della catena dell'Himalaya, e della cordigliera delle Ande, da cui dipendono corsi d'acqua che alimentano i vastissimi bacini idrici dei continenti, permettendo la sopravvivenza alimentate di miliardi di persone, in un equilibrio delle produzioni agricole già rese sempre più precarie dalle inondazioni, dall'alterato ritmo dei venti stagionali nei paesi tropicali, dagli  tsunami.

Oggi, secondo cifre sottostimate, si contano 820 milioni di uomini, donne e bambini che soffrono di denutrizione. Eppure nei paesi ricchi ogni anno circa un terzo del cibo commestibile, pari a 1,3 miliardi tonnellate viene sprecato, con un costo per l’economia globale di circa 750 miliardi di dollari l’anno. Lo spreco alimentare in Italia vale 10 miliardi di euro. Nella spazzatura finiscono più di 5 milioni di tonnellate di cibo. All’ingente danno economico si aggiunge anche quello ambientale. Infatti, lo spreco alimentare è responsabile di circa 4,4 miliardi di tonnellate di gas serra emesso nell’atmosfera e di un consumo di acqua pari a 170 miliardi di metri cubi.


Le rapprentazioni del cibo distopico

Se per secoli la rappresentazione delle catastrofi alimentari veniva rappresentata con i tratti magniloquenti della pittura nelle cattedrali, oggi, come spesso avviene per le rappresentazioni dell'arte e della cultura contemporanea, le narrazioni nelle forme più popolari e contingenti si fanno interpreti di queste minacce, mai pienamente tramontate nel profondo della psiche umana quasi come ricordo ancestrale del difficile e controverso rapporto con il cibo.

Non a caso nel periodo più duro della pandemia Covid i supermercati erano quasi un'isola rassicurante e i governi hanno subito rassicurato che la fornitura di derrate alimentare non costituiva alcun problema. I film e le serie tv delle varie piattaforme, che sono viste da miliardi di persone in quasi tutti i paesi del mondo, rappresentano la più pervasiva forma di narrazione contemporanea. Personalmente, anche se non ci gioisco, condivido l'opinione di chi ha scritto che hanno preso il posto della narrazione della realtà che nasce con il grande romanzo borghese dell'Ottocento. Spesso le serie o i film prodotti dalle piattaforme streaming rappresentano universi distopici causati dal crollo delle eccessive speranze nella scienza e nella tecnologia. L'odissea dei sopravvissuti al morbo degli zombi, nella serie omonima, che vagano per la sopravvivenza, per sfuggire al morbo e alla ricerca continua del cibo per sopravvivere. 

Nel 1973, negli anni in cui il rischio della guerra atomica e il conseguente inverno nucleare rappresentava una minaccia reale, come sciaguratamente sta ritornando, il film 2022 I sopravvissuti, descrive l'umanità regredita quasi alla sopravvivenza e nutrita grazie al cibo sintetico Soylent Gree. Una scena tra i protagonisti Charlton Heston e Edward G. Robins è un doloroso rimpianto per il cibo che fu e che viene associato a quello dei libri che furono. Ancora la forza immaginifica del cinema! Nello stesso anno, il 1973, il regista Marco Ferreri realizza il film La grande abbuffata, che rappresenta l'aspetto della dimensione interiore psichica del cibo rovesciato nella dimensione distopica e distruttiva fino all'auto distruzione e alla morte. 

Il recente film Interstellar narra di una terra desolata non più in grado di produrre cibo per la vita. Narra quindi il viaggio della speranza alla ricerca di altri mondi in cui ricominciare l'avventura della vita e della civiltà. Lo stesso tema della fine dei tempi, in una chiave grottesca e quindi ancor più incisiva, emerge anche dal recentissimo film Don't look up, in cui l'Armageddon è rappresentato da un asteroide la cui definitiva opera apocalittica è dovuta all'insipienza e al cinismo dei governi. Ancora insiste sulla paura della fine del mondo il film Voyager del 2021, in cui tre generazioni di umani navigheranno nello spazio per raggiungere un nuovo Eden da cui far ripartire la specie umana, partendo dall'agricoltura. Gli scenari della fantascienza erano e sono premonitori dei rischi del futuro, quasi che, parafrasando una famosa frase di Oscar Wilde, "la realtà copia la fiction".

Le paure dell'Apocalisse, mai sopite nel profondo della psiche e della storia umana, oggi prendono aspetti nuovi, solo in parte esorcizzabili con la fiducia nella potenza della scienza e della tecnologia, che anzi vengono viste come concause del disastro, assieme ad una politica incompetente ed incapace di affrontare le grandi sfide dell'umanità. Oggi si aggiungono altri pericoli dovuti alla complessità della contemporaneità e che riguardano l'intelligenza artificiale, la pervasività dei social media gestiti dagli algoritmi, e altre "stregonerie" contemporanee di cui, ancora un film, Matrix, descrive lo scenario estremo.

Dunque la fiducia dell'umanità nelle "magnifiche sorti e progressive" si rivela sempre più una pia illusione. Altro che fine della storia, come illusoriamente teorizzava nel 1992 il politologo Francis Fukuyama, e fine delle piaghe e dei lutti dell'Apocalisse. Oggi abbiamo conferma che sempre più le utopie sociali, scientifiche e tecnologiche, trapassano nelle distopie come i durissimi anni della pandemia e l'attuale guerra in Ucraina stanno a ricordarci. Il cibo è uno dei campi più evidenti del rovesciamento dei due campi.

Pensiamo alla rivoluzione verde, il cui inizio si può far risalire al 1944, e che si risolve sempre più nel suo contrario per le cause di inquinamento, desertificazione, diffusione delle monoculture che facilita. Noi occidentali pensavamo di essere salvi, ma così non è mai stato, perché in tante parti del mondo i tre cavalieri hanno sempre sparso le loro disgrazie e i loro dolori. L'utopia di un mondo migliore, nella dolorosa storia del Novecento, si è troppo spesso rivoltata nell'universo dell'ideologia totalitaria che ha portato a diversi universi concentrazionari e alle guerre. Nel 1958 Primo Levi, sopravvissuto al campo di sterminio nazista, ci ricordava che la dignità e la condizione di umani ha direttamente a che fare con il pane e con la fame. Oggi "fame vivente sono migranti, profughi, persone che attraversano il deserto e finiscono in mano agli scafisti" (Vito Testi, Fine pasto. Il cibo che verrà).

Nella nostra quotidianità vediamo come il cibo utopico trapassa nelle fake news, nelle mode pericolose delle diete, sino all'universo distopico dell'anoressia, della bulimia, con la conclusione generalizzata dell'ideologia dominante dell'ortoressia. Ortoressia che ci porta a vivere da malati per morire sani e che crea i presupposti per il marketing perverso di consumi alimentari deviati e eteroimposti. Purtroppo l'opinione pubblica meno attenta e informata minimizza il problema dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), mentre nella realtà rappresentano patologie molto gravi. Secondo i dati resi disponibili il 15 marzo, giornata nazionale (ufficialmente riconosciuta dal governo) contro i DCA, il 10% della popolazione italiana sta facendo i conti con questo problema. In Italia tre milioni di persone soffrono ufficialmente di "mal di cibo", e la maggioranza, il 95 %, sono femmine e più della metà tra 13  e 25 anni. In questa fascia di età i DCA sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Non bisogna essere degli statistici per capire che questa è la parte emersa di un Iceberg che può aumentare a dismisura.  

Michael Pollan scriveva nel 2008 nel suo In difesa del cibo: "Come consumatori siamo sempre più in balia di un complesso alimentare industriale che comprende scienziati in buona fede, sebbene inclini all'errore, e venditori pronti a sfruttare qualsiasi loro mutamento di opinione. Ci dimentichiamo che in passato gli esseri umani, mangiavano per tanti altri motivi oltre che per semplice necessità biologica. Il piacere, la convivialità, la famiglia e la spiritualità. Il loro rapporto con il mondo naturale e l'espressione della loro identità." Pollan concludeva con il semplice consiglio "di non mangiare nulla che la nostra nonna non avrebbe mangiato". Alvise Cornaro, un intellettuale veneziano vissuto tra la fine il XV e XVI secolo, nel suo geniale trattatello La vita sobria, già esprimeva concetti e raccomandazioni non dissimili da quelle di Pollan. questi aspetti di eterogenesi dei fini abbiamo su Buoni da Leggere, portato il contributo di due testi fondamentali come Arcipelago cibo. Le 99 idee sbagliate sul cibo e la cucina di Marcello Ticca e Cibo di Andrea Segre.

Il cibo e la gastronomia della povertà 
Il cibo, la cucina e la gastronomia sono state sempre segnate da questa drammatica dialettica storica di eventi e, sempre, guerra, pestilenza e carestia sono stati profondamente legate tra di loro. Per secoli l'alimentazione è sta condizionata dalla penuria di materie prime, dando vita alla gastronomia della fame di cui tratta in modo esemplare Massimo Montanari in un apposito capitolo ne Il riposo della polpetta del 2021. 

La paura della fame ha sempre influenzato la storia dell'alimentazione. Spesso la paura si è tradotta in realtà, portando la morte tra gli uomini. Ma con la fame si è cercato di convivere e di limitare i danni. Per questo nei secoli sono stati studiati metodi per conservare i cibi, come salare, seccare, affumicare, fermentare. Tutti metodi per fermare la deperibilità degli alimenti, capaci di trasformare i prodotti freschi animali e vegetali in prodotti diversi ma conservabili. Anche l'invenzione del formaggio e delle composte nasce, in prima istanza, da questo tentativo di fermare il tempo per avere alimenti a disposizione anche a fronte di mancanza o pochezza dei raccolti e delle altre produzioni alimentari.

Questi metodi e questi saperi, escogitati all'origine per necessità, finiranno per creare un rapporto tra la gastronomia della fame e quella alta e ricercata. In questo senso la cosiddetta cucina povera è stata una delle esperienze più rilevanti per la creazione dell'alta gastronomia. In questo sforzo secolare delle civiltà contadine di far fronte alla fame si ascrive anche la realizzazione di metodi e tecniche di coltivazione che favoriscono la biodiversità, di cui oggi tanto e a ragione giustamente si parla. Mel Medioevo si coltivavano molti cereali diversi per diversificare i tempi di crescita e di raccolto. Anche negli orti si applicavano gli stessi criteri. Anche per gli animali, oltre alla specie più adatta al quel territorio, si accudivano anche altre specie. Per secoli l'applicazione del criterio della biodiversità è stato il principale metodo per la lotta alla fame. 

L'abbandono di questi principi, a causa della diffusione del latifondo e dello sviluppo dei grandi interessi economici legati all'agricoltura, hanno spesso creato le premesse per le grandi carestie, come abbiamo visto nell' Irlanda nella metà dell'Ottocento con la monocoltura della patata o per la sottonutrizione con la diffusione di patologie endemiche come la pellagra quando, nel nord-est del nostro paese sul finire dell'Ottocento, i contadini potevano coltivare per le loro famiglie solo il mais, facendo affluire il frumento nei mercati ricchi delle città. Oggi questi problemi riguardano soprattutto paesi con coltivazioni intensive come caffè, cacao, palma da olio, che impoveriscono le coltivazioni destinate alla alimentazione dei contadini.

La gastronomia della povertà ha sempre dato anche un grande influsso alla ricerca di piante spontanee commestibili, dando impulso allo sviluppo delle conoscenze. Le donne soprattutto, dai tempi del neolitico fondamentali nella raccolta del cibo, svilupparono le conoscenze delle cosiddette erbe di campo che, nel Medioevo, erano considerate come dono diretto di Dio. Quando oggi ci gratifichiamo con una misticanza, ovvero un'insalata mista di erbe più o meno spontanee, pagandola anche cara, diamo valore culinario a un prodotto nato dal contesto della lotta contro la fame. 

Anche i tempi di guerra possono a ragione entrare nel contesto della gastronomia della fame. La scarsità di cibo era presente al limite dell'ossessione nelle narrazioni della letteratura e del cinema degli anni seguenti il secondo conflitto mondiale. Ricordo, e invito in proposito alla lettura, il bel saggio del 1987di Miriam Mafai Il pane nero, sul lungo inverno del 1943. Penso che in ogni famiglia italiana sia ancora vivo, seppur sempre più sbiadito, il ricordo della fame di quegli anni. Sono, quelli di guerra anche i periodi che registrano l'arte di arrangiarsi in cucina. Per avere un esempio concreto dell'arte di arrangiarsi, che ancora una volta le donne di casa seppero dare, rimando a quanto già pubblicato In questa rubrica, dove ho analizzato l'Agenda di casa di un'anonima casalinga romana, ricavandone appunto le variazioni delle abitudini alimentari dovute alle ristrettezze dell'economia di guerra. Le donne tornano sempre a svolgere un ruolo positivo, eppure a causa della divisione sociale dei sessi, patiscono la discriminazione dalla casta degli chef.

Le apocalissi interiori del cibo
Oggi le origini delle carestie culturali e mentali indotte nell'auto rappresentazione del cibo, da cui si originano i tanti comportamenti alimentari ossessivi e sbagliati, nascono e si diffondono perché, come già nel lontano 1958 affermò Hannah Arendt, una delle pensatrici per profonde e autonome del pensiero contemporaneo, il carattere profondamente politico del cibo diventa anche strumento politico per la costruzione dell'ordine sociale, per consolidarlo e dominarlo. Il filosofo contemporaneo Giorgio Agamben, particolarmente attento e studioso dei fenomeni della biopolitica, ha affermato che lo strumento alimentare è utilizzato, nelle nuove forme dell'edonismo, dello spettacolo, dell'intrattenimento, similmente a quanto avveniva nei lager di varia natura per trasformare e piegare l'individuo ridotto ad una vita di incorporazione della sua condizione di subalternità, per rafforzare il controllo del sistema sociale. 

Oggi ci dobbiamo interrogare sulle nuove forme, subdole e intenzionali delle apocalissi del cibo come elementi fondativi della costruzione sociale come strumento basilare di biopolitica. Per il filosofo Michel Fucault la biopolitica è il terreno in cui agiscono le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce le discipline del corpo e le regolazioni delle popolazioni. È un'area d'incontro tra potere e sfera della vita. Un incontro che si realizza pienamente in un'epoca precisa: quella dell'esplosione del capitalismo che si caratterizza con le sue forme e dinamiche di controllo anche delle vite intime e personali. Controllo che non si esercita più con le quaresime e le paure dei peccati della gola, ma al contrario attraverso la dimensione della rappresentazione pervasiva, edonistica e spettacolare del cibo.

Non è un caso che sul web tra i siti più cliccati figurino quelli dedicati al cibo e alla cucina. Vedete sui vostri media quanto questo tema sia pervasivo e quotidiano. Il controllo sociale si esercita non più, per lo meno nella maggioranza dei paesi ricchi, con la sua mancanza ma attraverso il condizionamento a viverlo come ossessione: bulimico, anoressico, ortoressico, Cibo edonistico, senza, naturale, biologico, identitario, medicalizzato, pornografico, etichette semaforo, diete: queste sono le forme delle nuove apocalissi del cibo proprie della società dello spettacolo preconizzata da Gui De Bord nel lontano 1967.

Apocalisse, nel suo significato letterale ἀποκάλυψις, significa anche rivelazione. Ed è quanto abbiamo cercato di fare, svelando alcuni aspetti, in queste semplici riflessioni. Certo è ingenuo cercare di dare indicazioni, consigli o peggio ancora velleitarie soluzioni nella confusione in cui la nostra cultura alimentare sembra essere diventata estranea a sé stessa e non siamo più ciò che mangiamo, non sappiamo più cosa mangiamo e neppure perché.  Ma, secondo gli intenti di Buoni da Leggere per un cibo buono, sano e giusto, concludiamo con una lunga citazione dal citato saggio Cibo di Andrea Segre, che invita ad una resistenza attiva attraverso "un lessico dislessico del cibo, contro tempo e contro corrente. Contro quel mondo variegato di affabulatori, avvelenatori, blogger, commercianti, chef, consulenti, criminali, dietisti, guru, industriali, nutrizionisti, presentatori, professori, ricercatori, ristoratori, sofisticatori, truffatori - solo per elencare le categorie principali, rigorosamente in ordine alfabetico e non di apparizione". 

Scritto da Sergio Bonetti

Ha insegnato all'Università, si è occupato di piccole imprese e, negli ultimi anni, soprattutto di quelle del  settore enogastronomico, per le quali ha promosso eventi legati alla cultura del territorio. Le sue grandi passioni sono i libri, il cibo, il vino…e le serie tv.  

Ama viaggiare e per lui ogni tappa diventa occasione per visitare i mercati alimentari e scoprire nuovi prodotti, tecniche e tradizioni.

E’ inoltre appassionato di ricerca e dello studio di testi in ambito culinario, per contrastarne la spettacolarizzazione e i luoghi comuni.

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