Dove la cucina diventa magia
Riflessioni a ruota libera tra storia e attualità sull’antico paese di Cuccagna, traendo spunto da un testo di Massimo Montanari
Mettendo un po’ di ordine tra le mie carte e libri, mi sono ritrovato tra le mani un bel libro di Massimo Montanari dal titolo “La fame e l’abbondanza”, un testo ricco di tanti spunti di riflessione sui rapporti tra gli alimenti e gli eventi storici, all’interno il quale spesso l’autore entra nella psicologia dell’uomo con il suo bisogno di mangiare.
Uso il termine “mangiare” e non il più delicato “alimentarsi” o “cibarsi”, perché usare la parola mangiare porta subito alla mente il gesto tipico di tale verbo: afferrare qualcosa con le mani o con un attrezzo e portarlo alla bocca, con lo scopo unico di saziare la fame manifestata dal proprio organismo. E’ la descrizione in sostanza della necessità di supportare la “vita fisica”, a prescindere da tutti gli altri aspetti che al cibo si ricollegano e che, nel testo in questione, sono ampiamente illustrati.
Sfogliando e rileggendo piccoli tratti, mi sono soffermato su un piccolo brano in cui l’autore mirabilmente traccia la strada che porta al paese di Cuccagna, chiamato anche Bengodi. Ancora oggi, infatti, tante volte si sente dire ad uno scroccone, una volta scoperto, “che non siamo nel paese di Cuccagna”. Rifletto e mi rendo conto, allora, che la fame esiste ancora, eccome! Basta camminare un po’ per le vie cittadine, per rendersi conto di quanti, italiani e non, cercano tra le immondizie qualcosa di ancora commestibile oppure da rivendere, per poter poi recarsi in un bar o un supermercato per acquistare cibo.
Certo, è una sconfitta sociale costringere un cittadino o comunque un essere che vive nel luogo, a ricercare nella sporcizia qualcosa con cui sopravvivere; così come è tanto triste veder gente anche del cosiddetto “ceto medio”, doversi recare alle mense sociali o usufruire di altre iniziative umanitarie pur di poter tirare avanti. Credo che proprio a questi esseri umani possa adattarsi il brano del Montanari sul favoloso paese di Bengodi. Due parole allora sull’argomento, sperando che un giorno non vi sarà più bisogno di sognare il paese di Cuccagna.
Del paese di Cuccagna si comincia a scrivere e favoleggiare tra 1100 e il 1300, e altro non è che la trasposizione popolare, scritta e orale, del sogno che da sempre fanno i poveri che hanno tanta fame: mangiare, tanto, buono e gratis. Sognare tranquillità, benessere, abbondanza di tutti i cibi e bevande era ricorrente nella estrema povertà dei più.
Il paese di Cuccagna viene descritto come fatto di campi circondati da carne arrosto, oche che si rigirano da sole sugli spiedi, vigne legate con le salsicce, tutto a disposizione di tutti, vini compresi. Questi luoghi da fiaba compaiono nelle diverse letterature (spagnola, inglese, italiana, tedesca, ecc.) anche se con nomi diversi: in Italia Boccaccio scrive del paese di Bengodi, dove parmigiano grattugiato, gnocchi e ravioli vengono continuamente prodotti e consumati. L’immagine di tanto cibo si ricollega ovviamente anche a quella di una sessualità più libera (perché soddisfare sempre e gratis la fame, non solo allontana il pensiero di come procurarsi il cibo, ma dona al corpo le energie giuste per tale attività e la serenità per perdersi in tali desideri), di una eterna giovinezza (per l’apporto di tutti i nutrienti e la scomparsa delle malattie), di una ricchezza facile (solo un ricco può mangiare bene e tutti i giorni dell’anno) e di una borsa sempre piena (pronta a comprare subito tutti i cibi).
Il sogno di Bengodi altro non era che l’emblema di una difficoltà cronica di sfamarsi, fatto che nel Medioevo tornava ad affacciarsi regolarmente (carestie varie e guerre continue) ogni uno o due secoli, dopo una relativa calma che consentiva anche una ripresa della crescita della popolazione. Il colmo è che a scrivere i libri su questi sogni erano i colti ricchi e non gli affamati: le due culture, della fame e dell’ostentazione, si collegano tra loro perché l’una si comprende solo se c’è l’altra a fare da contraltare. Le due culture, inoltre, coesistevano in quanto i ricchi pur non avendo l’esperienza della fame avevano paura della fame, mentre i poveri conoscevano anche loro lo spreco, l'abbondanza e l'ostentazione, anche se solo in certi periodi o ricorrenze (quando non vi erano carestie o guerre). In realtà però lo spreco era relativo perché nulla si buttava: infatti gli avanzi e i cibi guasti si davano agli emarginati, esattamente ciò che accade oggi dopo tanti secoli di abbondanza. Nulla è cambiato, tutto resta uguale sotto il sole, come affermava già Qohelet circa tre secoli prima di Cristo. Di Bengodi e Cuccagna si sogna anche oggi.
Diciamo però che, per fortuna, la fisiologia umana ha del miracoloso, perché il corpo si adatta a mangiare poco o molto, a seconda della disponibilità alimentare, e la fame finisce per essere anche una questione mentale. Una cosa però mi sento di dire: l’immagine di una povertà felice, di una penuria lieta è soltanto pura immaginazione. La povertà e la fame sono tristi, salvo il dettato evangelico che ci invita a vederle in modo diverso: ma non tutti hanno la fede per farlo! Può vederle positivamente solo colui che mangiando molto decide di mangiare meno perché, certamente, fa bene alla sua salute. Una cosa è certa: anche oggi gli affamati cronici mangerebbero fino a scoppiare e, visto che non possono farlo nella realtà, lo fanno nel sogno.
Immagine di apertura: Foodscapes di Carl Warner
Note bibliografiche
- M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Ed. Laterza
Photo via Canva
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