L’universale nel particolare

Della frutta e del dono nella Fiscella di Caravaggio

L’universale nel particolare

Prima Parte

Immagine di apertura: 

Roma, Basilica di San Clemente – Chiesa superiore – Presbiterio – Catino absidale – Il Trionfo della Croce, prima metà sec. XII

Particolare delle canestre di frutta, sottarco (a e d); catino absidale, girali d’acanto e ceste di frutta (b e c)

 

 “Noi vediamo la realtà attraverso lo specchio di un enigma” (S. Agostino, Confessioni, X).

Nell’arco e nel catino absidale della Chiesa superiore della Basilica di San Clemente a Roma, nello spettacolo della rappresentazione musiva della prima metà dell’XI secolo che entro girali d’acanto e figure incornicia la Croce di Cristo come albero della Vita, si scorgono alcune ceste di frutta (mostrate nell’immagine di apertura dell’articolo, ndr),. Due si trovano alla base dei due punti di nascita del sott’arco e altre due sono collocate nella fascia più bassa dei “cerchiari” ai piedi della Croce. Le due ceste aprono e chiudono l’iscrizione che come una didascalia offre la chiave di lettura dell’intera composizione: “Ecclesiam C(h)risti viti simulabimus isti” (“A questa vite paragoneremo la Chiesa di Cristo”).

Cosa lega queste ceste con la Fiscella di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, meglio conosciuta come la Canestra di frutta realizzata nel 1601 e conservata nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano? Sicuramente una tradizione iconografica che rimanda all’antica xenia, termine greco che si rifà al concetto di ospitalità e che ha poi definito un genere pittorico assimilabile alla più nota natura morta. In riferimento alla xenia, Vitruvio (seconda metà del I secolo a. C.) ci descrive i “doni ospitali” composti di cibi freschi (frutta, verdura, uova, formaggi) che il padrone di casa faceva trovare agli ospiti nelle loro stanze.

La xenia era dunque un dono e implicava il dovere di ricambiare l’ospitalità ricevuta.

Ma il legame tra i mosaici e il dipinto caravaggesco va ben oltre. La Canestra dell’Ambrosiana può essere considerata un capolavoro assoluto del genere della natura morta (interpretato, come si vedrà, in una chiave del tutto originale) e ritenersi il risultato più alto e maturo della riflessione caravaggesca su dati derivati dalla conoscenza della cultura figurativa ellenistica, alla quale appartiene la nascita storica della scena di genere intesa come illustrazione di episodi minori legati alla quotidianità. Il Cardinale Federico Borromeo (Milano, 1564-1631), che ne entrò  in proprietà (secondo alcuni ne fu il committente, per altri studiosi la ricevette in dono dall’amico Cardinal Francesco Maria Del Monte, protettore di Caravaggio), espresse grande ammirazione per l’autore del dipinto, raccontando di non essere riuscito a trovare qualcuno in grado di dipingere un degno pendant alla Fiscella caravaggesca.

 

La relazione tra le ceste con pomi e melograni dei mosaici absidali di San Clemente a Roma, del cui capitolo era titolare Antonio Seneca, alter ego del Borromeo, altrettanto lodati dal Borromeo nel suo De pictura sacra, e la Fiscella caravaggesca trova conferma nel fatto che furono proprio tali mosaici ad ispirare nel Borromeo l’intenzione di ricreare una coppia di canestre per la Pinacoteca che andava costituendo all’Ambrosiana di Milano (istituzione voluta per assicurare una formazione culturale gratuita a chiunque avesse qualità artistiche o intellettuali e caratterizzata dalla produzione di copie da dipinti celebri, promossa dal prelato per scopi didattici e documentativi). Il coinvolgimento di Caravaggio è, da questo punto di vista, non certo quello di un copista quanto di un interprete assoluto di linguaggi antichi trasposti in una chiave moderna e universale insieme. La cultura di Caravaggio appare in sintonia con quanto il Borromeo andava indicando agli artisti. Ispirato ai principi della Controriforma, esortava i pittori ai recuperi delle iconografie arcaiche e alle pregnanze simboliche dell’età paleocristiana.

Riesce difficile immaginare che nell’impetuosità e nella carnalità della pittura caravaggesca vi sia un recupero tanto colto quanto sensibile della più pura iconografia paleocristiana, generalmente caratterizzata dall’appiattimento delle figure, dalla preponderanza di raffigurazioni frontali e dalla perdita del senso narrativo che lascia spazio all’allusione del mondo spirituale. Eppure Caravaggio ebbe la straordinaria capacità di mantenere fede ad una tradizione tanto aulica e colta, come quella paleocristiana, sebbene ormai lontana dal linguaggio figurativo e dalla comprensione comune del suo tempo, trasportandola nella contemporaneità attraverso una rappresentazione tanto naturalistica quanto carnale e, proprio per questo, nuovamente accessibile.

Se nel mosaico absidale di San Clemente è l’albero della Croce di Cristo ad esemplificare la creazione della vita entro una profusione di racemi, di fiori, frutti e figure, nella Canestra dell'Ambrosiana l'artista non reputa più necessaria la presenza dell'uomo. È in essa stessa che si esprime il senso dell'intera natura come creatrice della vita e attraverso di essa, nell’intreccio della cesta di vimini, è esaltato il legame tra l’umanità e la divinità.

La composizione è anomala. Il piano su cui poggia la fiscella (cestello di vimini che si usava per far scolare il siero della ricotta fresca), che appare quasi più come un davanzale che come un tavolo, è a filo del lato inferiore della tela. La cesta, leggermente decentrata per offrire dignità di spazio financo alle foglie, fuoriesce un poco dal piano, come fosse in bilico. Espediente presente anche in altri dipinti di Caravaggio, come si può vedere in una analoga cesta di frutta nella prima versione della Cena in Emmaus (1601-1602, conservata alla National Gallery di Londra) o nella seconda versione della pala con San Matteo e l’Angelo (1602 c., Cappella  Contarelli, San Luigi dei Francesi, Roma) dove ad essere in bilico è invece lo sgabello su cui il Santo poggia pericolosamente il ginocchio. Cos’altro è se non un invito rivolto allo spettatore ad entrare “in scena”? Ad avvicinarsi per accogliere il dono ma anche a sostenerlo, con la propria forza, la propria fede. Una fede che si scopre, inaspettatamente, di avere proprio davanti una tale mirabile apparizione.

Laureata in Lettere moderne, con indirizzo Storico Artistico, alla Sapienza di Roma, sua città natale, in Scienze Psicologiche Applicate e in Psicologia dello sviluppo tipico e atipico, insegna Storia dell’Arte negli istituti di istruzione secondaria superiore.  

Collabora da oltre un decennio con il Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e di Storia dell'Arte dell’Università degli Studi Roma Due di Tor Vergata nell’ambito della formazione degli insegnanti e da alcuni anni come docente a contratto presso la cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea dello stesso Ateneo per l’insegnamento di Metodologie e Tecnologie didattiche della Storia dell’Arte. Interessata da sempre all’indagine iconografica e allo studio dei simboli nelle diverse culture, nonché allo studio della relazione tra arte e pubblicità, ha all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche.

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