Le avventure del Marsala

Il vino dolce simbolo dell’Italia nel mondo nacque quasi per caso, e ci sono di mezzo anche gli inglesi: ecco storia e consigli di degustazione

Le avventure del Marsala

Il Marsala nel mondo è oggi sinonimo di qualità italiana, ma quanta strada ha dovuto percorrere chi produceva questo vino! Quante sono state le traversie causate delle leggi non oculate dello Stato Italiano! 

Leggi del 1931, 1950 e 1961 che, se da un lato avevano organizzato una sorta di disciplinare, dall’altro avevano esteso troppo la zona di produzione (oltre la classica provincia di Trapani, includendo aree che non potevano fornire uve adatte al Marsala, oltre al fatto che area estesa vuol dire tanta uva e tanto vino, con conseguente calo dei prezzi), non erano stati fissati controlli di qualità; infine, dulcis in fundo,  avevano consentito la produzione del cosiddetto Marsala Speciale, scelta inutile ai fini pratici e che  nella realtà aveva consentito a tanti di immettere sul mercato Marsala aromatizzati (all’uovo [zabaione], alla mandorla, alla fragola, al mandarino, al caffè, ecc.), e Marsala con diciture di fantasia (abitudine che continua ancora oggi, inventata dai furbi inglesi produttori in Sicilia, ma usata anche da tanti italiani) ingannevoli per i consumatori. 

Ufficialmente servivano per distinguere il prodotto destinato all’Italia da quello riservato all’esportazione, ma in realtà creavano solo confusione e incremento di prezzo per un prodotto molto scadente; sigle inutili riassumibili in I.P.-Italian Particular, S.O.M-Superior Old Marsala, L.P.-London Particular, P.G.-Particular Genuin, I.M.-Italian Marsala. Il Marsala era stato così ridotto, paradossalmente per colpa della stessa Italia che invece doveva proteggerlo e valorizzarlo, a un banale e scadentissimo vino aromatizzato, divenuto simbolo internazionale di raggiro e di prodotto scadente, mentre il suo cuore e la sua origine (di cui a breve dirò) parlano da sempre di un vino di grandissima qualità, anche quando ancora non aveva un nome. 

Tra gli aromatizzati è sopravvissuto quello all’uovo, solo che viene denominato “Cremovo zabaione” e deve contenere almeno il 60% di Marsala di qualità. Nel 1969 (2/4/2969 su GU 143 del 10/6/69) il Marsala ottenne la DOC (prima di tutta la Sicilia) ma furono le norme del 1980, 1982, 1984, 1986,  che ne ridefinirono il disciplinare diverse volte (ultima quella del 2014), con eliminazione degli aromatizzati, riduzione dell’area di produzione alla sola provincia di Trapani, rafforzato il Consorzio di Tutela e Valorizzazione, fissate norme per la vigna e la cantina, per l’invecchiamento, in modo da realizzare tutto il ciclo produttivo nell’area trapanese. Solo tutto ciò e la serietà e passione dei produttori hanno consentito al Marsala di tornare ad essere il pregiatissimo vino liquoroso sinonimo di Italia e, ancor più, di Sicilia in tutto il mondo.

Ho voluto tratteggiare la storia più recente perché ricca di sconfitte e vittorie sulla burocrazia agricola e vinicola, riservandomi di raccontare poi la parte più bella della storia del Marsala, cioè quella dell’origine di questo insuperabile vino.

La storia di questo splendido prodotto siciliano, vanto dell’Italia intera in tutto il mondo, non inizia per merito di siciliani ma per una semplice casualità, o se vogliamo per puro caso, grazie all’intuito e la capacità commerciale e tecnica di due inglesi, veri intenditori di vini liquorosi, dei quali il primo fu il commerciante Woodhouse, a cui seguì il più tecnico Benjamin Ingham e i suoi nipoti della famiglia Whitaker, seguiti successivamente da James Hopps (1827 - 1900). Correva infatti l’anno 1773, quando il brigantino di proprietà dell’inglese John Woodhouse (diretto a Mazara del Vallo per caricare ceneri di soda, destinata alla produzione inglese di sapone) fu costretto da una violenta tempesta a riparare nel porto della cittadina siciliana di Marsala, dove rimase agli ormeggi per diversi giorni. Il tempo per bighellonare e girovagare non mancava e, di conseguenza, sia l’equipaggio che il capitano scesero dalla nave e visitarono in particolare bettole e cantine, dove trovare non solo belle siciliane ma anche cibi e vini locali particolarmente apprezzati perché già gustati in precedenti viaggi. Fu proprio il commerciante Woodhouse che si imbatté (a guidare fu sempre il caso) nell’opportunità di bere un gustoso e forte vino locale, privo di un nome proprio, almeno sino ad allora. 

Il commerciante lo trovò così buono da paragonarlo al vino Porto e al Madeira che egli già conosceva per averne trasportato, in precedenti viaggi, diversi barili in patria, vendendoli con notevole guadagno in quanto tanto apprezzati e ricercati dai britannici. Decise perciò di portare nella grande isola sua patria alcuni barili del vino che aveva scoperto. Durante il viaggio l’intraprendente commerciate aggiunse 2 litri di alcol per ogni 100 litri di vino, in modo da evitare che si alterasse. Ne trasportò in tutto 100 pipe (piccole botti di legno da 420 litri, simili agli attuali tonneaux da 420 lt) e giunto in patria rivendette quasi immediatamente tutto il carico del vino. Il risultato brillante lo indusse poi a ritornare diverse volte in Sicilia a Marsala, per acquistare ormai esclusivamente il vino Marsala che lui aveva ideato

Il commercio fu tanto fiorente che Woodhouse successivamente quasi si stabilì a Marsala, acquistando vigneti già presenti e terreni dove impiantare nuove vigne per produrre “quel vino speciale” che lui poi arricchiva di alcool. Da buon inglese, capace di guardare positivamente al futuro, acquistò anche vecchi edifici dove si lavorava una volta il tonno (i cosiddetti bagli), in modo da avere autonomia per la trasformazione delle uve in vino senza dipendere da alcuni, costruendone anche di nuovi. Con grande lungimiranza sulla bontà economica dell’avventura, Woodhouse finanziò anche molti contadini per convincerli a piantare le vigne giuste per il suo vino o a migliorare quelle che già avevano, stipulando con loro dei contratti che impegnavano il produttore a coltivare in un certo modo e a consegnare tutta l’uva (o il vino se lo facevano in proprio) a lui. 

L’attività economica e al contempo sociale del Woodhouse fece sì che tutta la cittadina povera di Marsala si sviluppasse divenendo famosa per il suo vino che, adesso, veniva prodotto in grandi quantità in quanto richiesto in Inghilterra e nel resto d’Europa. Il successo fu così grande che il Woodhouse estese le coltivazioni di vite nei comuni di Mazara e Castelvetrano, sempre in provincia di Trapani, oltre che nel palermitano.

All’inizio di questa favola moderna il Marsala si affermò non con il nome attuale ma con quello di “vino inglese”, probabilmente per difenderlo dalle imitazioni e differenziarlo dai due concorrenti “portoghesi”. La casa reale inglese ne ordinò 500 pipe (quindi ben 210.000 litri), destinati dal re agli ufficiali della Reale Marina Inglese e fu, forse, il Marsala, ma in seguito gli inglesi riportarono la grande vittoria navale di Trafalgar (al comando dell’ammiraglio Nelson contro la flotta navale franco - spagnola) e il Marsala venne definito Marsala victory wine. Ma se a Woodhouse si deve il merito di aver scoperto il buon vino divenuto poi il Marsala, come già detto in apertura, è a un altro cittadino inglese che si deve il vero scatto in avanti di questo meraviglioso vino. Si tratta di Benjamin Ingham e ai suoi nipoti Whitaker, i quali da un lato carpirono con diversi stratagemmi i segreti dei vini liquorosi spagnoli e portoghesi, dall’altro applicarono quanto assorbito alla produzione del Marsala. 

Furono loro infatti che, alla pari di Woodhouse, realizzarono magazzini e cantine per produrre il Marsala, associando a loro molti agricoltori ai quali imposero un vero e proprio disciplinare di produzione dell’uva nel quale venivano fissate regole importanti (avevano già compreso che il buon vino nasce in campo!): sollevare i grappoli dal terreno con delle canne per non far passare nel vino sapori e odori nauseanti (la vie allevata ad alberello aveva i grappoli praticamente a terra), bisognava eliminare i grappoli marciti o comunque non di qualità, le foglie e i graspi; occorreva vinificare le uve bianche dopo la loro raccolta senza attendere di unirle alle rosse che maturavano dopo, le quali dovevano essere vinificate (attendere tutta la raccolta voleva dire mettere insieme uve stramature e spesso guaste con quelle rosse appena raccolte, per cui si operava un vinaggio e non un uvaggio); era necessario pulire bene ogni anno le cisterne in cui avveniva la fermentazione dell’uva (inizio del concetto di igiene in cantina), idem per i contenitori del vino prodotto; il mosto doveva essere filtrato prima di porlo a fermentare. Grazie a tali accorgimenti il Marsala divenne praticamente eccezionale e le richieste giunsero anche dall’ Australia e dagli USA (tutte popolazioni di origine inglese, come è noto). 

Solo a questo punto del successo del Marsala, quando nel 1832 l’imprenditore siciliano Vincenzo Florio decise di avventurarsi anche lui nella produzione di questo vino liquoroso, facendo costruire uno stabilimento vinicolo e concludendo accordi con i viticoltori. Nel 1880 entrò a far parte della cordata l’imprenditore Carlo Pellegrino (proveniente da una famiglia di notai ma con una personale vocazione vinicola): grazie all’esperienza della madre (nobildonna francese figlia di viticoltori e distillatori) Pellegrino introdusse novità tecniche e tecnologiche nella produzione del Marsala, in particolare nell’invecchiamento che avveniva nelle barrique di rovere francese, per cui gli aromi particolari e i tannini di questo legno si ritrovavano poi nel Marsala, con risultati eccezionali per l’epoca, apprezzati più all’estero che in Italia, dove invece i conservatori in tema di vino non gradivano l’innovazione del vino in legno molto profumato).

Oggi con una situazione ormai stabilizzata sia a livello normativo, che tecnico-enologico e commerciale, il Marsala è posto in commercio in varie tipologie, distinte in base al contenuto zuccherino (secco meno di 40 g/l di zuccheri, semisecco con 41-99 g/l e dolce con 100 e più g/l); in base al colore in oro e ambra (da uve bianche Cataratto, Grillo, Inzolia e Damaschino) e Ruby (rosso da uve Pignatello, Nero d’Avola e Nerello Mascalese); in base all’invecchiamento, che avviene in contenitori di legno preferibilmente di rovere o ciliegio nel Marsala fine (minimo 8 mesi in legno), Marsala superiore (minimo  2 anni in legno), Marsala superiore riserva (minimo 4 anni in legno), Marsala vergine o Soleras (minimo 5 anni in legno), Marsala vergine stravecchio o Soleras stravecchio o Soleras riserva (minimo 10 anni in legno).

Prima di concludere voglio ricordare (senza entrare nei dettagli tecnici della produzione) che Il Marsala è un vino liquoroso che si da uve che vengono vinificate sempre in bianco; il prodotto finale viene ottenuto  aggiungendo al vino iniziale del mosto cotto per il tipo Ambra; poi si aggiunge alcol etilico (esclusivamente di origine agricola) sotto il controllo della Guardia di Finanza; poi di nuovo mosto concentrato e di mistella (o sifone, che è un mosto reso infermentescibile per aggiunta di alcol etilico o acquavite) per i tipi Fine e Superiore). Per il tipo Vergine non si aggiunge nulla perché la gradazione zuccherina delle uve è più che sufficiente per sviluppare 18° alcolici. Le sfumature di colore, i profumi e il sapore di un Marsala non sono perfettamente qualificabili in quanto ogni marsala è ottenuto dall’assemblaggio di vini ottenuti in zone diverse del disciplinare (cioè non è mai millesimato), per cui non si parla mai di annata del Marsala. 

Considerato che in commercio e sul web esistono tanti esperti che consigliano meglio di me, voglio solo ricordare brevemente:

  • Come bere il Marsala: bisogna usare bicchieri di capacità media (non grandi come per i rossi, non piccoli come per i distillati); i migliori sono quello a forma di tulipano, con apertura leggermente svasata, in modo da convogliare bene i profumi al naso;
  • Come degustare e abbinare al meglio il Marsala: come aperitivo (non il tipo dolce, a 12°C), con i dessert (semisecco o dolce a seconda della dolcezza del dessert, specialmente con biscotti da forno, pasticceria fresca e secca), con la frutta secca, o fresca, dolce e gelato (a 12°C in estate e a 18°C in inverno), fuori pasto (specialmente riserva dolce, a 16 °C), come vino dopocena (possibilmente il tipo Vergine Stravecchio, sempre a 16°C).

 

Note bibliografiche
V. Lo Jacono, La storia del Marsala, Ed. Spazio Cultura
AA.VV., L’universo del vino, Ed. Enosisi
AA.VV., I vini del mondo, Ed. Gribaudo
A. Dominé, Vino, Ed. Gribaudo/Kolemann
L. Veronelli, Bere giusto, Ed. BUR Rizzoli

Scritto da Luciano Albano

Laureato con lode in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Bari nel 1978, ha svolto servizio come dirigente del servizio miglioramenti fondiari della Regione Puglia presso l’Ispettorato Agrario della città di Taranto. Appassionato di oli e vini, ha conseguito il diploma di sommelier A.I.S. e quello di assaggiatore ufficiale di olio per la sua regione

Specializzato in Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli presso il C.I.H.E.A.M. di Bari (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Mediterraneennes)" . Iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Taranto. Iscritto nell'Albo dei C.T.U. del Tribunale Civile di Taranto

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