Tu chiamale,se vuoi, colazioni… #2

“E che cosa amerò se non l’enigma delle cose?” (Friedrich Nietzsche)

Tu chiamale,se vuoi, colazioni… #2

Édouard Manet, Colazione nell’atelier, 1868 (particolari)

Limone, ostriche e caffè

“La prima impressione che produce una tela di Èdouard Manet
è di una certa durezza.
Non siamo abituati a vedere
traduzioni della realtà tanto semplici e sincere”
(Emile Zola, 1867)

Colazione nell’atelier è forse l’opera più classica ma anche più coraggiosa di Édouard Manet. La tela in questione non si presta a provocare né a scandalizzare i borghesi, come fu per Colazione sull’erba, ma ha il potere di produrre un certo disagio nello spettatore il quale ha ben poca scelta: liquidare l’opera con qualche critica demolitiva o impegnarsi nella soluzione di un enigma. Nel primo caso, si è preceduti da una folta schiera di critici che hanno snobbato la tela, nel secondo occorre lo sforzo di specchiarsi nella scena o di entrarci dentro. Gli elementi delle armature, il grande vaso ben decorato con la pianta dalle larghe foglie verdi sul fondo, la tavola con il pasto, costituiscono intervalli dal respiro più leggero dal, possiamo dire, congelamento emotivo che si produce osservando questo dipinto.

Il dipinto fu tenuto dall’artista nella sala da pranzo della casa in affitto a Boulogne-sur-Mer dove lo aveva realizzato nell’estate del 1868. Il giovane ritratto è presumibilmente il figlio naturale dell’artista, Léon Koëlla-Leenhoff, sebbene si preferisse riconoscervi il fratello più giovane della moglie di Manet, Suzanne Leenhoff,  mentre l’uomo seduto alla tavola è l’amico pittore Joseph-Auguste Rousselin. Nulla sappiamo della donna sul fondo che guarda fuori dal quadro.

Colazione nell’atelier è considerato un soggetto iconografico enigmatico. Eppure un primo indizio per comprendere che l’enigma in realtà è solo apparente ci viene proprio dalla scelta cromatica che Manet compie per questa tela e dalla corrispondenza che essa crea con il cibo. Il nero, i bruni, il bianco e il giallo limone degli abiti, degli oggetti e dell’ambientazione tutta sono gli stessi colori delle ostriche, del limone sbucciato e del caffè.

La tavolozza cromatica è giocata sui toni del bianco, del grigio, del nero e dei bruni in alternanza con macchie di colore giallo limone: dall’agrume sbucciato al liquore sul tavolo, dalla paglietta indossata dal ragazzo alla sua cravatta, dalle tracce sui decori del vaso sul fondo all’orlatura dorata della tazzina da caffè, fino a quella dell’arma da fuoco in primo piano a sinistra sulla sedia, omaggio - forse - all’amato Jan Vermeer che pure utilizzava questa tonalità del giallo nelle sue opere e all’atmosfera delle quali la tela di Manet tanto si accosta.  La critica meno benevola non ha mancato di sottolineare come questa tavolozza rendesse il dipinto freddo. Aggiungiamo pure aspro.  Una connotazione, questa, tutt’altro negativa,  come vedremo.

La composizione è singolare. Il tema iconografico intimo e rassicurante della colazione in un interno si dissolve già ad un primo sguardo per lasciare il posto al sottile disagio dato dalla manifesta indifferenza dei personaggi gli uni agli altri.  Ciascuno pare isolato in un mondo proprio e l’insieme dà l’impressione di un incantesimo che li imprigiona in quello stato. Anche i rapporti proporzionali tra le figure, rispetto ai piani in cui sono incluse, sembrano disarmonici. Eppure non basta rincarare la dose osservando che pure il pasto mischia il caffè con il limone e le ostriche, come fa l’esterrefatto Castagnary, per dire che si tratta di un’opera mal riuscita o di un arrogante esercizio di gratuito virtuosismo pittorico per la presenza degli inserti di natura morta di cui Manet era abile esecutore (“Il motivo lo vedo fin troppo bene. Manet [...] eccelle nel dipingere oggetti inanimati, donde la sua superbia quando si tratta di eseguire nature morte, e perciò cerca di inserirli ovunque ne ha la possibilità”).

Che non ci sia unità narrativa nel dipinto è già stato ampiamente osservato dalla critica. Ma che vi sia un’unità psicologica e una corrispondenza tra personaggi e cibo intuiamo che possa essere pienamente ipotizzato. Per la soluzione dell’enigma partiamo dal restituire al limone sbucciato il ruolo da protagonista di questa tavola. È un agrume che compare spesso nelle opere di Manet (nel dipinto Il limone ne è il soggetto assoluto). Nelle tradizioni iconografiche pagane come in quella cristiana, il limone assume un significato legato all’amore, in quanto produce frutto tutto l’anno, e alla salvezza, per le sue proprietà curative.  Consideriamo poi le ostriche, alle quali il limone si abbina, e il loro generale richiamo al simbolismo sessuale femminile e a quello della fecondità. Ma anche alla perla che, al determinarsi di una precisa combinazione di condizioni, dalle ostriche è prodotta e alla quale possiamo legare il simbolismo dell’eccezionalità dell’evento.

Ora: la tovaglia è intonsa, il coltello pulito, le ostriche nel piatto, chiuse o aperte che siano (la stesura pittorica a macchie ne rende ambiguo il riconoscimento), non sono state ancora toccate. A parte il liquore e il caffè davanti al personaggio seduto, nulla lascia intendere che questa colazione sia stata consumata o che si stia in procinto di farlo, vista la singolarità dell’intera composizione. Tutto appare chiuso in tempo congelato

nell’istante rappresentato e chiusi appaiono i tre personaggi nei loro mondi lunari, il cui riflesso sta in accordo con il bagliore perlaceo delle conchiglie, l’argento del coltello e quello della caffettiera lucente oltre che della tinta dei muri.  Va notato che nei dipinti fiamminghi ai quali spesso Manet rende omaggio e in cui compare l’ostrica, il mollusco ne fa bella mostra oppure giovani e floride fanciulle appaiono intente ad aprirne le valve).

Giunge allora inevitabile il richiamo alla suggestione caravaggesca nell’espediente barocco di porre sul bordo delle tavole imbandite le canestre di frutta, per coinvolgere virtualmente lo spettatore a protrarsi per sorreggerle, per non lasciar cadere i frutti troppo in bilico e, dunque, per farlo partecipare attivamente alla scena e al suo divenire psicologico. La buccia dorata e  srotolata del limone sembra proprio un invito a questo. Il limone è sul bordo della tavola e la spirale della sua buccia sporge seguendo una diagonale opposta a quella del coltello con cui crea una specie di triangolazione al cui vertice è posta un’ostrica, fuori dal piatto in cui ve ne stanno altre.

A chi è rivolto, allora, l’invito a rompere l’incantesimo di momenti in cui ci si astrae del tutto dalla vita e ci si identifica nelle proprie immaginazioni, se non allo spettatore?  Ci piace pensare che la soluzione dell’enigma stia nell’entrata in scena di costui che, afferrato il coltello, con cautela apra l’ostrica, prenda poi il limone sul bordo della tavola, lo tagli e ne lasci scivolare il succo sul mollusco, realizzando ciò che simbolicamente questi cibi promettono:  amore, fecondità, salvezza. 

Amore per la vita, fecondità nella condivisione con gli altri, salvezza dal divenire sensibili all’essenza – anche qui – della vita. Per scoprire l’eccezionalità dell’evento, la perla: la gioia delle piccole cose, la luce dell’attimo vissuto come presenza.

E il caffè? Beh … non resterà che berlo. Magari spremendovi dentro del limone.  Suggerire di mischiare limone e caffè non era forse intenzione di Manet in questa tela.  “Si vede come si vuol vedere, ed è questa falsità che costituisce l'arte” affermava l’artista.  E allora perché non portarsi via anche l’idea per la quale se non si riesce a liberarsi da stati di assenza tanto profondi come quelli dei personaggi … un bel mal di testa è il minimo che si potrà ottenere? Il limone troverà comunque la sua utilità, essendo, unito al caffè, un ottimo rimedio contro il mal di testa.

 

Bibliografia di riferimento

Zola, E., 1867,  Èdouard Manet, Étude biographique et critique

Matisse, H.,  Il nero è un colore, 1946

Fried, M., 1998, Manet's Modernism: Or, The Face of Painting in the 1860s, University of Chicago Press, p. 105, 298 (per la citazione in apertura e per quelle riportate nel testo)

Ventura, G., 2014,  L’Ostrica e la Pinna: storia, leggenda e curiosità, The Oyster and the Fin: history, legend and curiosity, Mem. Descr. Carta Geol. d’It.  XCVI, pp. 461-500

Laureata in Lettere moderne, con indirizzo Storico Artistico, alla Sapienza di Roma, sua città natale, in Scienze Psicologiche Applicate e in Psicologia dello sviluppo tipico e atipico, insegna Storia dell’Arte negli istituti di istruzione secondaria superiore.  

Collabora da oltre un decennio con il Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e di Storia dell'Arte dell’Università degli Studi Roma Due di Tor Vergata nell’ambito della formazione degli insegnanti e da alcuni anni come docente a contratto presso la cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea dello stesso Ateneo per l’insegnamento di Metodologie e Tecnologie didattiche della Storia dell’Arte. Interessata da sempre all’indagine iconografica e allo studio dei simboli nelle diverse culture, nonché allo studio della relazione tra arte e pubblicità, ha all’attivo diverse pubblicazioni scientifiche.

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