Duello all’ultimo spiedo

La cottura allo spiedo è cosa antica: ripercorriamone la storia tra usanze, evoluzioni dello strumento e tradizioni italiane

Duello all’ultimo spiedo

Lo spiedo è stato pensato dall’uomo probabilmente sin da quando ha scoperto il fuoco; prima ancora di diventare homo sapiens ha imparato a domare l’elemento e ha pensato ad un palo di legno in cui infilzare le prede da mangiare per non scottarsi. Dopotutto la prima cosa che comprese fu che le carni erano di certo di miglior gusto e digeribilità da cotte piuttosto che crude.

Nel libro del Deuteronomio si trova scritto che Mosè consigliava al suo popolo di usare spiedi di legno di melograno. Negli scritti di Omero è spesso citata la cottura su braci ardenti di carne di vario genere infilzata su lunghi spiedi. Più tardi, Virgilio descrisse nell’Eneide vicende di aitanti giovani dediti alla caccia con i cosiddetti “venabula”, spiedi di ferro impiegati come strumenti di guerra così come di caccia e di cucina. I Longobardi chiamavano split la lancia che consentiva loro di mettere tavola rapidamente e spatha quella riservata agli spuntini leggeri; ancora oggi in Gallura e in Spagna l’arrosto infilzato nella spada è una tradizione che si trova nel tipico churrasco

L’imperatore Carlo Magno si faceva recapitare ogni giorno la selvaggina dai suoi servili cacciatori, a dispetto dei suoi raffinati cuochi; egli aveva perfino la proprietà sugli animali selvatici e i pesci e questo gli costò la malattia della gotta che lo portò alla morte. Il periodo di maggiore interesse per lo spiedo va dalla fine del ‘400 al tardo Rinascimento. A più riprese, a partire dal 1480, il grande genio Leonardo da Vinci studia l’automazione del girarrosto mettendo a confronto, in un foglio del Codice Atlantico, due sistemi: nel più tradizionale la forza di gravità di un peso fornisce l’energia motrice, nell’altro la fonte di energia è la corrente ascensionale di aria calda che facendo ruotare un’elica trasmette il movimento allo spiedo. 

È di Leonardo l’osservazione che aumentando o diminuendo il fuoco si può modificare la velocità di rotazione dell’arrosto, e nel 1506 compaiono nel Codice Leicester i suoi studi sulla forza del vapore. La relazione tra la velocità di rotazione dello spiedo e l’intensità del fuoco suggerisce a Leonardo l’invenzione di spiedi “a turbina”. Il ‘500 è il secolo in cui lo spiedo è protagonista in cucina: Bartolomeo Scappi descrive il “molinello”, un sistema con tre spiedi che ruota attraverso una serie di ingranaggi molto simile a quella dei mulini ad acqua. 

Il passaggio dalla cucina medioevale a quella rinascimentale è segnato dal Libro de Arte Coquinaria, uno dei più antichi ricettari. Il suo autore, Martino de Rossi o Martino de Rublis, passato alla storia col nome di Maestro Martino, ritenuto il più importante cuoco europeo del Cinquecento, suggerisce la tecnica per cuocere i pavoni allo spiedo per poterli poi servire con tanto di penne e ruota. I pennuti vanno prima privati della testa e della pelle con tutte le penne; vanno quindi farciti e cotti allo spiedo per essere in ultimo rivestiti con la pelle e le penne e portati in tavola emettendo scenograficamente fuoco dal becco colmato di vino e dato alle fiamme. 

La cottura consigliata per gli arrosti è lenta e solo in ultimo il fuoco più vivo provvede a dare il giusto colore e la croccantezza. Il ruolo della cottura con lo spiedo è esaltato anche nell’opera di Bartolomeo Scappi e in epoca successiva (siamo nel ‘600) da Bartolomeo Stefani con L’arte di ben cucinare che contengono numerose ricette di carni arrostire allo spiedo. Da strumento immancabile in cucina lo spiedo nel ‘700 viene soppiantato dal forno e dalla casseruola, complice il sopravvento della cucina francese; di questa crisi è responsabile in gran parte il ricettario Il cuoco francese di Francois Pierre de la Varenne, tradotto e ristampato diverse volte fino al 1815.

Da questo anno e fino ai primi del ’900 l’utilizzo del camino viene abbandonato; l’inizio del nuovo secolo vede l’invenzione del “Rostiforno” prodotto dall’azienda FIRT (Fabbrica Italiana Rostiforno Treviso). Questo spiedo funziona a carbone di legna, è portatile ed è racchiuso in un tamburo di rame e mantiene l’arrosto più morbido; ancora oggi gli “spiedi a tamburo” sono utilizzati nel bresciano. Oggi la cottura alla brace con lo spiedo è diffusa in tutto il territorio nazionale; ci sono però due province, Brescia e Treviso, che difendono in particolare le proprie tradizioni legate non solo alla pietanza in sé quanto ai suoi diversi metodi di cottura. 

La prima si difende con i suoi “momboli”, fette di coppa o lonza di maiale arrotolate con una foglia di salvia e rivestite da una fetta di pancetta o lardo. A Treviso invece lo spiedo è stato inserito dal Ministero fra i prodotti agroalimentari nazionali; la città vanta anche l’Accademia dello Spiedo dell’Altamarca. Nelle ridenti campagne trevigiane ricche di vigneti i contadini lasciavano dopo la vendemmia dei piccoli grappoli d’uva per attrarre gli uccelli per infilzarli e cuocerli allietando la tavola in modo semplice ed economico. 

La preparazione dello spiedo a Treviso richiede anzitutto sette-otto ore per preparare la brace con legna secca. Durante la prima ora di cottura il fuoco è moderato e nelle successive tre-quattro ore si ravviva la brace. La carne può essere carrè di maiale a quadrettoni, lardo, uccellini spiumati con le interiora, quaglia, coniglio. Si aromatizzano le carni con la salvia e lo spiedo si prepara la sera prima della sua cottura alternando pezzi di maiale al lardo, la salvia e gli uccellini fino a completarlo in lunghezza. Si aggiungono sale e pepe e si lascia riposare in luogo fresco coperto da un canovaccio fino al giorno successivo. 

Lo spiedo “alla bresciana” è diffuso anche nelle province di Bergamo, Mantova, Cremona e Verona; non vanta la denominazione da parte del Ministero come quello di Treviso ma si distingue per i momboli; in questo spiedo ci sono anche altre carni: pollo, anatra, coniglio, uccelli di cacciagione .Anche in questo caso la sera che precede la cottura si confeziona lo spiedo infilzando una patata che evita il diretto contatto della carne col ferro e poi si alternano nello stesso ordine i vari pezzi di carne, affiancando carne grassa come la coppa a carne più compatta come quella degli uccelli. Le foglie di salvia separano i pezzi di carne e la cottura procede col girarrosto a circa 20 centimetri dalla brace. 

Dopo una prima fase di cottura a secco la carne viene salata e cosparsa di burro ogni 20-40 minuti fino a che dopo circa 6-7 ore la carne ha la giusta morbidezza e ravvivando sul finire le braci si colora ed è pronta ad affiancare polenta e fagioli. Concludendo, c’è da dire che le differenze tra i due spiedi si possono riconoscere. Ma se i tagli di carne scelti sono di qualità e si aggiungono aromi e spezie anche nuovi, ogni cuoco potrà portare in tavola in entrambi i casi uno spiedo da leccarsi i baffi.

Scritto da Elena Stante

Laureata in Matematica nel 1981 presso l’Università degli Studi di Bari, dal 1987 insegna Matematica e Fisica presso il Liceo Ginnasio Aristosseno di Taranto .

Ha partecipato ai progetti ESPB, LabTec, IMoFi con il CIRD di Udine e a vari concorsi nazionali e collabora, con la nomina di Vice Direttore, alla rivista online Euclide, giornale di matematica per i giovani.

1 Commento

  1. Marino Marini12 giugno 2023 alle ore 15:30

    Non è male questo articolo ma essendo io bresciano non posso non rimarcare che da quest'anno lo spiedo tradizionale bresciano è annoverato tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali. Se n'era dimenticato l'assessore Rolfi pur essendo lui di Gussago, una delle capitali dello spiedo bresciano. Da ricordare anche che lo spiedo tradizionale si è sempre fatto davanti al camino dove si formano le braci, il cosiddetto tamburo è un macchinario usato da qualche decennio ma non tradizionale come la cottura libera davanti al camino. Grazie comunque.

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